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Dal belvedere di Pentedattilo il mare brillava dorato. Tutto era stupendo e bendispondente, fuorché il mio disagio. Stetti zitto ancora un po’, cercando di rimuovere quella sensazione, prima di rispondere a Carla, la mia ragazza. “Sì, potremmo tornarci in vacanza, dopo il matrimonio di Antonietta”. Quell’hotel sulla costa jonica, in fondo, non era male. Il mare del Capo Spartivento muggiva in lontananza, lucidando le scogliere, invitante e caldo sotto a quel sole primaverile. Fuori faceva caldo come se fosse estate, lo capivo dall’asfissia che mi dava il vestito in cui mi ero fasciato, e da quel maledetto papillon, che faceva sudore anche solo a nominarlo. Caldo. Caldissimo. La Pasqua più calda degli ultimi duecento anni, diceva la tv, e forse anche di più. Se le spiagge erano vuote, mi dicevo, certamente era solo per assenza di ferie. Ma il mare era già pronto a fare la stagione, e difatti il giorno prima avevo visto qualcuno solcare il mare a bracciate, libero e fresco, ad aizzare con la sua presenza in acqua quella voce che dentro me, già da due giorni mi diceva: “Vai! Tuffati! Comprati un costume al supermercato e tuffati”.
Lo avrei fatto se non fossi stato lì nella mia scomoda posizione ufficiale di testimone di Antonietta, la mia sorella prediletta, bellissima nel suo vestito da sposa. Un abito moderno. Attillato, con il seno fasciato a dovere e la gonna più alta delle ginocchia sul davanti, a fare da contraltare al tradizionale strascico. La osservavo da lontano sorridendo, assiepato con tutti gli altri sul sagrato della chiesa. Di Pietro e Paolo, nel vecchio borgo abbandonato di Pentedattilo. C’era riuscita, sì, la testarda, a ottenere il permesso. Aveva fatto tutto da sola.
All’indomani di quella mia disavventura notturna ero andato, ancora dolorante e senza più giubbotto e cellulare, a cercare Antionietta per dirle di andarcene via. Basta con quel posto delirante e pieno di pazzi. Avremmo cercato una chiesetta sullo Jonio, lì nei dintorni, e sarebbe stato bellissimo uguale. Ma erano le dieci passate, avevo dormito troppo: nella loro camera non avevo trovato né lei né Pietro. Non potevo chiamarli, e probabilmente avevano provato anche loro a farlo. Così mi ero risolto ad aspettare. Arrivarono all’una, lei raggiante a braccetto del suo futuro sposo, e avevo imparato che la sorellina, di fronte alle resistenze del parroco, aveva preso l’auto per andare fino a Reggio, direttamente alla sede della Diocesi. Pur senza appuntamento era riuscita a farsi ricevere dal vescovo, al quale aveva spiegato con gli occhi sognanti e umidi che quel loro sogno d’amore si sarebbe dovuto coronare lì, a Pentedattilo, in quella chiesa dove Dio li aveva fatti incontrare, il sabato prima di Pasqua. Il parroco aveva preso tempo, giusto per capire il perché di tanti no, ma sembrava propenso. Difatti tornammo a casa beneauguranti, e poco più di due settimane dopo dalla Diocesi di Reggio Calabria chiamarono per dire che sì, quel matrimonio si poteva fare e, anzi, colpito da tutto quell’amore, così raro di questi tempi, il vescovo avrebbe avuto piacere di celebrare le nozze di persona. Così la sventurata, rispose. Sua eccellenza aveva mantenuto l’impegno. Fu infatti proprio lui alle 12 in punto a spuntare sul sagrato e accogliere noi testimoni e il mio futuro cognato davanti alla porta della chiesetta abbandonata. Io non ero più tornato nel vecchio borgo, dopo l’inverno e quella mia disavventura.
Quella volta, dopo pranzo, e prima di ripartire, avevo chiesto a Pietro di accompagnarmi su al paese a provare di recuperare giubbotto e cellulare. Gli raccontai sommariamente l’accaduto, omettendo la presenza di quel ragazzo. Avevamo parcheggiato l’auto dove la sera prima avevo visto quella Twingo, e insieme avevamo percorso a piedi l’ultimo tratto di tornanti tra le case abbandonate, fino alla chiesa. Di giorno quel posto non faceva affatto paura. Avevamo risalito la strada parlando d’altro, e io omisi di serbare sotto i vestiti, dalla notte prima, uno sguercio su una spalla, le ginocchia rosse e doloranti e i palmi delle mani rovinati, che tenevo in tasca il più possibile. Vedevamo sullo sfondo il campanile della chiesa e, poco prima di raggiungerlo, avevo riconosciuto a sinistra la porta marcia di un vecchio magazzino che la sera prima era rovinata all’interno, risucchiando anche me. Eravamo entrati.
A terra un letto di calcinacci e una porta rossa, stesa di lungo. Riconobbi subito i resti mortali del mio cellulare e li recuperai: un vetro nuovo mi sarebbe costato di più di un nuovo telefono, ma tornato in città avrei almeno potuto provare a recuperare qualche foto. “Ora, da qualche parte, deve esserci il mio giubbotto”, avevo detto a Pietro, e ci eravamo messi a cercarlo, ma dopo mezz’ora buona a ravanare in quelle macerie, del mio bomber non trovammo nemmeno un brandello. “E’ impossibile”, aveva detto lui per tutto il tempo. Al suo posto spuntò fuori il vecchio ritaglio ingiallito di un giornale. Era La Stampa, e non era un reperto storico: risaliva ai primi anni Novanta. Un articolo, più volte ripiegato su se stesso, che parlava di un pittore tedesco che un bel giorno aveva deciso di ritirarsi da solo a Pentedattilo, un paesino totalmente abbandonato e maledetto in fondo allo Stivale, e che a un certo punto, dopo quattro anni di permanenza e svariati, piccoli attentati dolosi e inconvenienti vari, aveva gettato la spugna, abbandonando quel posto.
La foto in bianco e nero che corredava l’articolo lo ritraeva, giovane e barbuto, davanti alla porta di una casa che, a occhio, sembrava esattamente quella in cui ci trovavamo. Ma non era quella la coincidenza che mi fece rabbrividire: la giornalista autrice del pezzo, Clara De Luca, raccontava infatti di essere arrivata fino a Pentedattilo, all’epoca un posto per nulla turistico, e di essersi avventurata da sola in mezzo ai ruderi del paese abbandonato fino a che non era spuntato quasi dal nulla “Un adolescente del luogo – cito dal testo, che conservo ancora – dai capelli neri e un giubbotto di jeans, perfettamente a suo agio tra le rovine della vecchia Pentedattilo, che si è offerto a fare da guida…”.
Mi si gelò il sangue, ma che diamine? Stesso luogo, stesso ragazzo, stessa età, ma vent’anni prima. “Non è possibile”, avevo detto ad alta voce a Pietro, raccontando a quel punto del mio incontro. Lui aveva ascoltato, aveva riletto con me l’articolo e ne aveva riso: “Beh, vent’anni di adolescenza non è male, certo, forse non in questo buco”. Eravamo poi tornati via, rinunciando a cercare il mio giubbotto, sicuramente portato via a brandelli da qualche topo o gatto di quelli che la sera prima nel buio mi avevano fatto così paura. Io però ero rimasto parecchio inquieto, e prima di andare via ero tornato al chiosco e in un paio di bar del paese, a chiedere di quel ragazzo. “Giubbotto di jeans? No, nu sacciu”, mi aveva guardato perplesso il cameriere. E la stessa risposta mi avevano dato altre quattro persone in piazza, e pure il prete, che ci salutò con freddezza per l’alzata d’ingegno di mia sorella di parlare con il vescovo. Ma com’era possibile che nessuno in paese, un paese di poche migliaia di anime, conoscesse quel ragazzo?
10. Continua
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