Ti diranno che la chitarra classica è roba da romantici. Che se non c’è il metallo, allora non è rock. Che in fin dei conti una chitarra classica è soltanto la versione a buon mercato di un’acustica, la quale a sua volta è la versione unplugged di un’elettrica. Te lo diranno perché nel mondo della musica – escluso chi è del mestiere – tutto ciò che è classico per definizione vive in un mondo a parte. Tutto il resto è, banalmente, genericamente, leggera.
Ma leggera, poi, in che senso? Ecco, sì, la chitarra classica in effetti è più leggera. Fatta di solo legno laccato, di corde di nylon o di filo, ricoperte da una sottile zigrinatura di rame. Ti diranno: certo, ma con la classica al massimo ti arrangi durante i falò, mentre con l’elettrica, un buon ampli e i giusti effetti, la gamma dei suoni che puoi creare è infinita.
Ecco, ricominciamo da qui: con l’elettrica, quanti plettri hai? Uno. E con la classica? Quattro (il mignolo non suona). E non sono plettri, occhio, ma unghie. Una per ogni corda acuta e il pollice per le tre gravi. Adesso chi vince? Beh, siamo soltanto all’inizio.
Perché alle quattro unghie puoi sommare quattro polpastrelli, e il risultato sono già otto suoni differenti. E poi le unghie, in fin dei conti sono ben altra cosa di un pezzo di plastica triangolare: strettamente personali (non esiste un’unghia uguale a un’altra), sinonimo naturale della sopravvivenza, sono l’ultima arma di difesa dell’uomo, appendice del corpo che fa da link con il mondo. Poi di naturale, se vogliamo, nella classica c’è anche un’altra cosa. L’elettrica ha corde di metallo, e il metallo è inerte, duro e freddo. Si spezza ma non si piega. Quel nylon della classica, invece, oggi è sintetico ma sostituisce e imita il budello animale con cui venivano realizzate le prime corde.
Budello, o nervi. Da tendere e distendere, dipende dal calore, per generare suoni mordenti o rotondi. Quanto sa essere delicato, invece, il metallo? Se si spezza una corda di nickel non ragiona affatto: stupido kamikaze telecomandato, resta tesa e schizza all’esterno andando negli occhi di chi sta di fronte. La corda classica invece è cosa viva, e soprattutto è intelligente: se si rompe accetta la sconfitta e si ritira di lato, come un felino fa coi suoi artigli, per poi giocare d’astuzia: sa che con la giusta calma e un nodo al di là del ponte può ancora dire la sua.
Credi sia retorica? Ascolta: l’idea di un brano classico in testa ce l’abbiamo tutti. Grandi arpeggi, suoni miti, note liquide, sospese, pallose. Il contrario di un’elettrica vigorosa da rock o heavy metal: note velocissime, suoni distorti, assoli mozzafiato. Bellissimi. Bene. Concordo. Ma ora vai su Google, cerca Roland Dyens, ‘Tango en skai’ o meglio ‘Fuoco‘ e non fermarti alle prime note: quello che segue è un vero infarto. Non parlo di senso figurato: Roland Dyens un bel giorno ha avuto un infarto poi, quando si è rimesso, ha preso la sua classica e ha cercato di riprodurre l’ansia e le aritmie del suo cuore impazzito. E poiché a un certo punto le note non gli bastavano – un infarto è cosa seria – ha iniziato a percuotere le corde prima e dopo il ponte, a strapparle, a ticchettare sulla cassa. Tutto questo con un’elettrica, perdonami, si sarebbe risolto in un assolo distorto.
Oppure cerca Maurizio Colonna, ‘Sincronia’ o ‘Dance‘, in cui otto dita e sei corde di nylon suonano come un pc pieno di suoni e almeno due o tre synth insieme. Comunque troppo classico? E Pino Daniele allora? Tutto il live ‘E sona mo’ farà al caso tuo: rock, blues, bossa, pop… e gli strumenti sono gli stessi: dita, corde, unghie.
E tieni conto di una cosa, a proposito di dita: Pino Daniele, come si direbbe dalle sue parti, teneva due mani che parevano una bibbia. Grosse, tozze, grandi. Più adatte alla cazzuola che alla chitarra che, essendo classica, guarda un po’, si suona con le dita.
Su come ci riuscisse resta ancora oggi un mistero, che poi è lo stesso della chitarra classica: è naturale, e la natura sa adattarsi. Sopravvissuta in sordina per secoli perché troppo afona per competere, in orchestra, con i violini e i fiati, ha atteso con calma in una soffitta andalusa per poi sbaragliare tutti al momento giusto, regina incontrastata del Novecento. Il come sta proprio nella sua incredibile molteplicità: che forma ha l’acqua? Quella del suo contenitore. La metti lì e lei si plasma, si modifica, riempie. Poi, quando pensi di averla inquadrata e canonizzata, scoprirai che in realtà è già scolata via, in un modo che prima di cominciare non avresti neppure immaginato. Come un assolo rock, o una tromba jazz. Ma molto meno prevedibile.
God save the strings.
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