L'ultima querelle su tasse, pignoramenti e dintorni non è altro che la conferma di quanto il fisco sia nel nostro Paese un nervo scopertissimo. Al punto che riesce complicato analizzare le misure nel merito perché, come si accenna a qualcosa che abbia a che fare con i tributi e, addirittura, anche solo con i meccanismi di riscossione, scatta immediata la sensazione di sentirsi braccati e beffati.
Ora, si potrebbero aprire dibattiti a non finire sul livello dello spirito civico di noi italiani e, dunque, sul nostro conseguente tasso di responsività fiscale. Ma non è questo il punto. Il punto è che, anche senza scomodare la memoria dei famigerati «modelli lunari», il fisco italiano rimane tra le giungle più oscure e impervie nelle quali ci si possa infilare. Quando ci si ha a che fare, scatta subito il timore, anzi il terrore, di sbagliare a ogni casella compilata, a ogni calcolo effettuato, a ogni rigo superato. Non parliamo poi del momento in cui troviamo nella cassetta della posta una lettera degli uffici tributari: attimi di panico incosulto s’impossessano di noi.
Insomma la sensazione di essere nel mirino è costante, così come quella di vivere in una sorta di Stato di polizia fiscale random. Al danno biologico, però, si aggiunge la beffa. Quale? Quella di pensare che i sacrifici in onore del dio dell’erario serviranno largamente a finanziare servizi pubblici sempre più inefficienti o misure assistenziali (leggi reddito di cittadinanza) rivelatesi ampiamente incongrue rispetto all’obiettivo sbandierato. Dunque, invece di una manovra che anche negli ultimi commi contiene annidati marchingegni infernali e complicazioni esoteriche, non sarebbe stato meglio rilanciare una grande opera di semplificazione della nostra vita fiscale?