Il primo fu Renzi con gli 80 euro in busta paga. A lui seguirono diversi presidenti del Consiglio, ma anche chi ne prese il posto a Palazzo Chigi proseguì quella che, da molti, venne ribattezzata “politica dei bonus”. Per contrastare gli effetti su imprese, famiglie e lavoratori della pandemia prima e della guerra in Ucraina poi, infatti, i Governi guidati da Giuseppe Conte e da Mario Draghi hanno fatto largo ricorso a misure simili. Interventi estemporanei, spesso a pioggia, e adottati molte volte per compiacere l’elettorato. Interventi che, però, costano parecchio alle casse dello Stato.
Secondo la Cgia di Mestre, nel triennio 2020-2022 i bonus introdotti dagli ultimi due Governi valgono 113 miliardi di euro. Una cifra monstre, finanziata a debito. Quanto al costo delle singole misure introdotte negli ultimi anni, la più onerosa è il bonus Renzi: 28,3 miliardi di euro nel triennio 2020-2022. Varato nel 2014, il bonus 80 euro, che va a rimpolpare ogni mese le buste paga dei lavoratori dipendenti con un reddito non superiore ai 35mila euro, è stato rafforzato dal governo Conte II, che lo ha portato a 100 euro. Da marzo l’importo scende, compensato però, almeno in parte, dalla riduzione delle aliquote Irpef prevista dalla riforma fiscale varata dall’esecutivo guidato da Draghi. Ma la spesa pubblica è lievitata anche a causa dei più recenti incentivi all’edilizia, che, secondo l’Agenzia delle entrate, costeranno allo Stato 25 miliardi di euro nel triennio 2020- 2022. Poi ci sono i 22 miliardi di euro destinati al bonus sociale, introdotto a metà del 2021 e prorogato, con maggiorazioni, più volte quest’anno con l’obiettivo di calmierare i rincari delle bollette di luce e gas per le famiglie a basso reddito e le imprese energivore. L’importo, va detto, verrà in parte compensato dalla tassazione degli extra profitti realizzati dalle imprese del settore energetico. Infine, il tanto contestato Superbonus 110. In vigore dal luglio del 2021, la misura doveva servire a incentivare la riqualificazione energetica delle abitazioni. Costo calcolato al 31 marzo di quest’anno dall’ente pubblico di ricerca Enea: 21,1 miliardi di euro.
Nel complesso, i vari incentivi all’edilizia ammontano a 46 miliardi di euro. Secondo l’Agenzia delle Entrate, nel biennio 2020-2021, tra cessioni del credito e sconto in fattura, il conto per le casse dello Stato è stato di 13,6 miliardi di euro per il bonus facciate, 5,5 miliardi di euro per l’eco-bonus, 4,9 miliardi di euro per le ristrutturazioni edilizie e 0,9 miliardi di euro per il sismabonus. A questi importi, che arrivano alla cifra di 24,9 miliardi di euro, vanno aggiunte le detrazioni maturate per i lavori conclusi che hanno beneficiato del Superbonus 110, e cioè 21,1 miliardi. Totale: appunto 46 miliardi. Certo, è innegabile che queste misure abbiano contribuito a rilanciare un comparto, come quello delle costruzioni, che era stato particolarmente colpito dalla crisi indotta dal Covid e dai conseguenti lockdown. Tuttavia, per la Cgia, la “politica dei bonus” non è esente da critiche. Seppure necessari in situazioni di emergenza, infatti, i sussidi spesso sono andati “anche a chi non ne avrebbe alcun bisogno”. Con la conseguenza di risultare “regressivi” sul piano dell’equità fiscale. Ad avvantaggiarsene, infatti, sono state soprattutto le fasce di reddito più elevate. È il caso, in particolare, dei bonus edilizi e, nello specifico, del Superbonus 110, il cui decalage, come programmato dal governo, è giudicato “troppo lento”. Per la Cgia, infatti, è necessario “accelerare la riduzione dei vantaggi fiscali e, almeno per alcuni, arrivare al loro azzeramento”. Questo per racimolare i fondi necessari a sostenere famiglie e imprese. Dal momento che “il nostro Paese ha assolutamente bisogno di risorse pubbliche per fronteggiare le emergenze di questo momento – come il prezzo delle bollette energetiche, l’impennata dell’inflazione e il rincaro delle materie prime - i soldi possono essere recuperati solo tagliando la spesa pubblica”. Le uscite dello Stato, infatti, sono cresciute negli ultimi due anni anche a causa degli interventi spot dei governi. Rispetto al livello pre Covid, il debito pubblico è aumentato di oltre 21 punti percentuali di Pil, circa 340 miliardi di euro, e, nel 2021, si è attestato al 150,8%. Un livello che, vista la particolare situazione nella quale ci troviamo, dovrebbe consigliare prudenza.
Infatti, con la fine degli acquisti dei titoli di Stato da parte della Banca centrale europea, prevista per luglio, e con un imminente rialzo dei tassi di interesse volto a raffreddare l’inflazione ormai su valori da anni ’80 in tutta Europa, il pericolo è che i mercati finanziari inizino ad agitarsi. Già negli ultimi giorni, del resto, il differenziale tra i titoli decennali italiani e gli omologhi tedeschi, lo spread, ha ripreso ad allargarsi, sfondando quota 200. La preoccupazione della Cgia, pertanto, va alla “tenuta dei conti pubblici”, che potrebbe essere messa a rischio in seguito a un aumento della spesa per interessi pagata dallo Stato. Il tutto in uno “scenario economico e sociale” che è “sempre più cupo” e che richiede interventi a sostegno di famiglie e imprese. E vista l’indisponibilità da parte del governo di ricorrere a uno scostamento di bilancio per recuperare le risorse necessarie, l’unica alternativa, spiega la Cgia, è “tagliare la spesa corrente”. Solo così, infatti, sarà possibile “fronteggiare le emergenze economiche di questi ultimi mesi”, come il caro bollette e l’impennata dell’inflazione. Insomma, la caccia alle coperture passa per una “sforbiciata” ai 113 miliardi di bonus che sono ancora in vigore. Anche perché le altre strade sono quasi impraticabili. Le entrate ulteriori che potrebbero derivare dalla lotta all’evasione, infatti, “sono molto contenute”, mentre conseguire un maggior gettito alzando le tasse sarebbe controproducente.