Fa bene lo street artista di Bologna a sollevarsi contro la mostra che tenta di trasformare il lavoro suo e dei suoi colleghi in una operazione museale, il che prevede d’essere primo passo verso un’operazione commerciale. Fa bene perché se la street art è protesta, lui per definizione deve protestare.
A onor del vero va riconosciuto che il concetto avanguardistico di quel linguaggio è da tanto tempo superato. Una cosa era allora negli anni ’80 del secolo scorso liberare le energie delle popolazioni alternative alla New York chic e scatenare una protesta visiva sui muri delle periferie e sulle metropolitane che da quelle periferie penetravano la metropoli. Altra cosa fu la replica di questa protesta in versione italica. Da un punto di vista critico la questione era già stata risolta da Renato Carosone quando scrisse la famosa canzone: “Tu vuò fa l’americano, ma sei nato in Italy”. I nostri street artisti non sono street artisti, ma normali emuli che stanno al modello originale come il rock di Gallarate sta a Elvis Presley. Però la libertà vorrebbe che si lasciasse libero sfogo alla creatività e talvolta se son rose fioriranno. Però... una faccenda era dare colore alle periferie americane, ben altra fu quella di imbrattare i nostri centri storici. Il distinguo va fatto e ha ragione il bolognese che esercita la sua creatività in aree che sono comunque prive di un’estetica propria.
D’altronde dipingere muri è una vecchia tradizione italiana e ci provò sette secoli fa Giotto da Bondone con risultati formidabili dai quali discendono oggi queste simpatiche sperimentazioni, le quali tali sono e devono rimanere senza diventare materiale necessario per il commercio delle arti. Cari collezionisti comperate acquerelli.