Giovedì 21 Novembre 2024
Paolo Pellegrini
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Alfio Ghezzi, Territorio e cultura in un insieme di semplicità

Chiara e lineare la filosofia dello chef due stelle Michelin Figlio orgoglioso del suo Trentin punta sulla qualità onorando la natura una scelta maturata dopo un percorso costellato di incontri importanti maestri

Alfio Ghezzi

Alfio Ghezzi

Declinare un piatto, o un menu, partendo da un semplice mazzo di carote. Piccole e grandi, più o meno belle. Per ognuna, un’idea. Purché siano carote di Myrtha Zierock, radici nel vino e ora talebana dell’orto biodinamico. Semplicità e benessere. Ma anche cultura e territorio, qualità e natura, e rispetto, con una sfida: il coraggio di educare l’ospite. Chiara e lineare, ma quanto complessa: ecco la filosofia in cucina di Alfio Ghezzi. Cinquant’anni, figlio orgoglioso del suo Trentino (ma con una moglie piemontese che gli ha suggerito differenti orizzonti, e gli ha dato due splendide figlie) in cui realizza ora un progetto tutto suo, in doppia veste, il ristorante gourmet serale Senso e l’Alfio Ghezzi Bistrot all’interno del museo Mart di Rovereto, che tra non molto concederà anche il bis sul Lago di Garda. Tutto suo, dopo gli anni di gloria alla Locanda Margon della famiglia Lunelli, quelli degli spumanti Ferrari, pure capolinea a due stelle di un lungo percorso attraverso importanti maestri e compagni di viaggio ma anche divagazioni e deviazioni tra periodi di insegnamento e altri di apprendimento. Perché poteva esserci spazio anche per la filologia romanza, e un corso di laurea in lettere rimasto a metà. Eppure già a quindici anni sapeva che avrebbe fatto il cuoco.

Una vocazione precoce però maturata tardi: strappato ad altre opportunità?

“Non proprio. Parlerei di vocazione precoce sviluppata in un percorso lungo con fratture che potevano sembrare “fallimenti”, ma poi hanno generato energie e consapevolezze. Il passaggio a Lettere? Ho vissuto ciò che sentivo in quegli anni, però tra i “fallimenti” posso contare 7 anni di insegnamento, e la formazione resta tra le mie attività”.

Maestri importanti: quanto contano?

“Quello che sono lo devo anche a loro, alla cucina sul prodotto, alla cucina “che toglie”, secondo Marchesi. Di Ettore Bocchia mi rimane l’importanza del prodotto, della filiera, del produttore; retaggio di Berton, la metodologia e la cura del dettaglio. Elementi che ora ritrovo in ciò che faccio”.

Alfio Ghezzi chef colto: è necessario, al di là della conoscenza degli alimenti?

“Mah, colto… certo, appassionato di letteratura. Importante? La cucina è effetto di una cultura che si lega all’ambito spazio-territorio. E avere queste conoscenze porta a pensare, a concepire un piatto in modo più complesso, comunque lontano dal concetto di complicazione associato all’esasperazione tecnica”.

Tra le sue bandiere il “bello totale”: per questo ha scelto un museo?

“Il Mart è un caso, in un momento favorevole. Dopo 10 anni con i Lunelli, sentivo la necessità di realizzare il mio pensiero. Ho visto al museo uno spazio molto bello e l’opportunità di un concetto di cucina ampio, popolare, per tutti, connesso con la mia terra, con il paesaggio e l’ambito culturale. Ho partecipato al bando, sono entrato e ho cercato di dare forma alle mie idee di una cucina pulita senza salti mortali, in connessione vera con le aziende del territorio”.

Cucina che celebra l’ingrediente, preferibilmente locale. Significa “km zero” o semmai “km vero”?

“Via dalle paranoie, voglio lavorare con buonsenso per una cucina sobria, concreta, di gusto. Marchesi puntava sulla complessità e sulla grandiosità della cucina italiana, sulla grandissima biodiversità tra regioni. Ecco, io voglio essere ambasciatore della cucina italiana, dei prodotti del territorio: ho ingredienti da fuori come stoccafisso, aringa affumicata, cioccolato, caffè, spezie e qualche vino ma tutto il resto è italiano, con grande attenzione alle verdure e qualche piccola eccezione come la selvaggina che arriva dall’Austria, ma il Tirolo per noi fa parte di una macroregione”.

Che le offre cosa?

“Ci sono tre contadini sul territorio che ci dettano il menu, tutto sta nell’adeguarsi a ciò che fornisce la terra. E così noi non abbiamo magazzino, non usiamo congelatori, quindi possiamo sviluppare un solo menu, e l’ospite può scegliere solo un piatto”.

È qui la chiave di “benessere e semplicità”, il suo slogan?

“La semplicità si manifesta nell’essenzialità: design leggero, piatti senza decorazioni, al bar non mille bibite ma solo quattro, tutte di qui, e tre birre trentine. Solo cinque salumi: il lonzino di Fracassi, la soppressata di Giannarelli, la bresaola di Panatti, il cotto di Capitelli e lo speck riserva di Tito dalla Val di Fiemme. Per il benessere la cucina sposa tecnica e conoscenza. Con altri colleghi della Val di Sole abbiamo una “cantina condivisa”, vanno nelle malghe a comprare la “caserada” di giornata, la portano alla cantina, ci troviamo lì e dividiamo. Poi c’è il pane, che è una portata a sé. E dal mese di stage al Geranium di Copenhagen ho imparato a cancellare il confine tra sala e cucina, a recuperare le conserve e la charcuterie, a selezionare i salumi, ora anche noi facciamo le nostre slinzeghe, piccole bresaole. E il burro, attraverso quella “cantina”, viene da Mondent, una malga in val di Rabbi”.

Montagna tutta delizie, o c’è anche qualche croce?

“Conta essere essenziali. Il contadino mi dà radicchio e rape buonissimi, però se la settimana dopo il radicchio è bruciato? È più semplice alzare il telefono e chiamare i fornitori da catalogo… La vera sfida allora è educare l’ospite: le critiche non mancano, allora io intervengo e spiego, ed è quello che ho sempre voluto fare, e poi c’è l’aspetto della coerenza: io non cucino per alcuni familiari, al bistrot mettiamo a tavola anche cento persone, e con questi concetti la coerenza non è una linea retta”.

Ma come si coniugano territorio e tradizione con una ricerca avanzata?

“Bisogna capire la differenza tra complicazione e complessità. Può essere avanzata restando semplice, o con il lavoro sulle sfumature. Penso al piatto con le carote di Myrtha. L’Input: carote molto buone. Poi dividiamo le grosse dalle piccole, lavoriamo con la stagnola e con la centrifuga, separiamo polpe e bucce, ci uniamo cicoria sbollentata, polvere di caffè e cipolla, facciamo centrifughe e brodino… Nessuna complicazione, è un piatto-menu che può essere replicato, ma c’è complessità, acidità, amaro e dolce, tutto in armonia come insegnava Marchesi. Semplice ma non banale”.

Tradotto in un menu?

“Il primo piatto è una zucchina, tipo la carota, ma con suggestioni napoletane perché con il fiore c’è ricotta di bufala e provola affumicata a scapece, e le melanzane e la sapidità delle acciughe: un piatto che racconta i nostri temi, io non faccio “cucina di montagna”, il territorio è la mia dispensa ma è cucina italiana. Poi c’è uno spaghetto con il Trentodoc e l’alloro, un piatto con il temolo di torrente, e c’è il “Compartire”, piatto di pane che ha un che di sacralità. Il secondo prevede formaggio, tonno di coniglio di tradizione piemontese che devo a mia moglie Barbara, e i profezeni, pane fritto con cervella tipico del Trentino”.

Un ristorante e un bistrot, che esigenza è?

“La cucina deve essere per tutti, ma non per tutti è il rituale serale di una cena di due ore. Ma deve essere buona anche se mi chiedono solo un panino, e allora ecco la pizza alla pala e al ruoto e il Martburger, con ingredienti buoni. Sono cuoco, voglio cucinare per tutti: e come nel vino, c’è la linea base e il top di gamma, ma sempre ugualmente curate”.

Che cosa chiede ai suoi ospiti?

“Di fidarsi della mia onestà. Se mi chiedono un crodino o una cocacola oppure un toast, devono fidarsi delle mie bibite e dalla mia pizza alla pala, e riconoscere il lavoro fatto bene”.

I MIEI MAESTRI

«Quello che sono lo devo anche ad alcuni incontri importanti, alla cucina sul prodotto, alla cucina “che toglie”, secondo Marchesi. Di Ettore Bocchia mi rimane l’importanza delle materie prime, della filiera, del produttore; retaggio di Berton, la metodologia e la cura del dettaglio»

BENESSERE E SEMPLICITÀ

«La semplicità si manifesta nell’essenzialità: design leggero, piatti senza decorazioni, al bar non mille bibite e solo cinque salumi, tutti di produttori che garantiscono la necessaria qualità. Per il benessere la cucina sposa tecnica e conoscenza»

DEMOCRAZIA A TAVOLA

«La cucina deve essere per tutti, ma non per tutti è il rituale serale di una cena di due ore. Ma deve essere buona anche se mi chiedono solo un panino. Sono cuoco, voglio cucinare per tutti: e come nel vino, c’è la linea base e il top di gamma, ma sempre ugualmente curate»

 

Il ristorante

Dal Bistrot al Mart fino al Senso

Bistrot dalle 10 alle 18, fine dining dalle 19:30. Ecco la giornata intensa di Alfio Ghezzi e del suo team (con lui anche la moglie Barbara) nel locale “connesso” al Mart – Museo d’arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto (“un bell’ambito culturale – dice Ghezzi – tra Biblioteca Civica, Teatro, Auditorium Melotti...”), grazie a porte che si aprono e si chiudono con gli orari del museo.

 

Ristorante Senso

Aperto la sera dal martedì al sabato

[email protected]

Alfio Ghezzi Bistrot

Aperto dalle 10 alle 18; chiuso lunedì e domenica sera

[email protected]

Mart – Corso Bettini 43, Rovereto (TN) Tel. +39 0464 661375