Un conto è comprare un paio di scarpe marchigiane, una soffice mozzarella campana o un bel set di bicchieri di Murano, soprattutto se sei un acquirente straniero e ancora consideri il Made in Italy uno status symbol per veri intenditori. Un altro conto è invece rilevare l'intera società che queste eccellenze le produce e le commercializza. Per inserirla, che si tratti di gruppi o fondi nazionali o internazionali, in un 'contenitore' finanziario in cui il prodotto in questione ha sì qualcosa da guadagnare in termini di risorse promozionali e mercati di sbocco, ma pure qualcosa da perdere in termini di identità.
Questi, in soldoni, i pregi e i difetti dell'impatto delle M&A sul tessuto imprenditoriale italiano e, in particolare, sugli storici marchi del Fashion, del Food e dell'industria largamente intesa. Sui quali, da almeno una ventina di anni, colossi aziendali e fondi provenienti tutto il mondo hanno posato prepotentemente gli occhi. E quando diciamo prepotentemente lo facciamo a ragion veduta, perché, come riporta l'ultima analisi in tema di fusioni e acquisizioni nel Belpaese redatta da Kpmg, nel solo 2021 “sono state chiuse 1.165 operazioni, per un controvalore pari a circa 98 miliardi di euro”. Di queste, in un anno che secondo l'advisor è stato “il migliore dopo la crisi finanziaria del 2008”, 348 (+ 60% vs 2020) per 16,8 miliardi di euro di controvalore (+194% vs 2020) quelle estero su Italia. Con un quintetto di casi (il 40% di Openfiber ceduto da Enel agli australiani di Macquarie Infrastructure & Real Assets, l'entrata degli statunitensi di KKR Infrastructure in Fibercorp, il passaggio del 49% di Telepass da Atlantia al private equity elvetico Partners Group, l'acquisizione dell'immobiliare Reale Compagnia Italiana da parte di Blackstone e quella di Investindustrial Lifebrain da parte dei francesi di Cerba Healthcare) in cui il valore dell'affare ha superato il miliardo di euro. Senza contare l'offerta pubblica di acquisto di Credit Agricole, da 840 milioni di euro, per le azioni del Credito Valtellinese. Fin qui, però, parliamo più che altro di alta finanza, di infrastrutture e di partecipate. Insomma, di maxi-operazioni ben lontane da quello spirito di scommessa sui piccoli grandi brand del Made in Italy al quale si accennava sopra. Ma questo spirito esiste, come provano le decine di passaggi di mano che nell'ultima trentina d'anni hanno cambiato la geografia, tra gli altri, dei nostrani comparti dell'abbigliamento, dell'agroalimentare e della meccanica. Nel primo campo, pionieri furono i giapponesi di Edwin Iternational, che a inizio anni '90 si comprarono Fiorucci per poi cederla, nel 2014, ai connazionali di Itochu, che l'anno dopo la conferirono al gruppo della stilista britannica Janie Schaeffer. Poi fu la volta di un marchio iconico come Krizia, venduto ai cinesi di Shenzen Marisfrolg Fashion, e dell'incetta di brand (Gucci, Bottega Veneta, Pomellato, Dodo, Brioni e Richard Ginori) acquistati dal fondo francese Kering. Senza dimenticare la maison Valentino, entrata dal 2012 nell'orbita dei qatarioti di Mayhoola Investments, e il gruppo Ferrè, finito in quella del Paris Group di Dubai, o La Rinascente, che ora appartiene alla compagnia thailandese Central Group of Companies. Questo mentre Versace passava per 2 miliardi di dollari a Michael Kors e mentre il colosso transalpino LVMH si prendeva Loro Piana, Fendi, Emilio Pucci e Bulgari. Nella galassia del cibo, poi, Galbani, Locatelli, Invernizzi e Cademartori sono della francese Lactalis, che nel 2011 portò a termine anche la scalata alla Parmalat, mentre le etichette degli olii Cirio-Bertolli-De Rica, ora di proprietà della spagnola Deoleo, sono stati ceduti a quest'ultima dal mastodontico gruppo londinese Unilever (titolare anche dei diritti dei gelati Grom). E, per completare il quadro, spagnolo parlano pure i salumi Fiorucci, mentre i cioccolatini Pernigotti sono finiti addirittura in Turchia e la Birra Peroni ben più lontano, in Giappone, 'bevuta' dalla Asahi Breweries. Stesso discorso, inoltre, anche per molte punte di diamante di settori meccanico e produttivo, tra la Magneti Marelli acquisita dai giapponesi di Calsonic Kansei, la Pirelli ora controllata da ChemChina, nel fu Celeste Impero, la AnsaldoBreda passata da Finmeccanica alla nipponica Hitachi e una Italcementi venduta ai tedeschi del gruppo HeidelbergCement. E non abbiamo certo dimenticato Automobili Lamborghini, da tempo controllata da VolksWagen tramite Audi. Fin qui la storia della penetrazione straniera in Italia. Il presente, invece, accanto al sempre vivo interesse degli acquirenti internazionali per i nostri gioiellini, è fatto pure di gruppi italiani che guardano in casa propria per rilanciare marchi antichi e gloriosi. Un esempio pratico, risalente allo scorso anno, è quello del trentino Gruppo Lunelli. Che, noto ai più per lo spumante Ferrari e l'acqua Surgiva, ha messo le mani sulla Cedral Tassoni, fondata nel 1793 a Salò come spezieria e produttrice, soprattutto, dell'omonima cedrata. E l'operazione rilancio, in questo caso, pare già avere imboccato i giusti binari, se è vero che un fatturato precipitato nel 2020 a causa delle chiusure dei distributori Horeca si è già rialzato, nel 2021, a 10,3 milioni di euro (grazie a 22 milioni di bottigliette vendute). E che le previsioni per il 2022 parlano già di 12 milioni di ricavi (+15%). Sempre in tema di 'beverage', poi, nell'anno passato si segnala anche l'acquisto da parte del fondo Clessidra, per 15 milioni di euro, di Acque Minerali d’Italia (titolare dei marchi Norda, Sangemini e Gaudianello). Mentre è il tessile il campo di applicazione, dal 1893, di quella Limonta SpA di Costa Masnaga, in provincia di Lecco, finita per 89 milioni nel circuito di Tamburi Investment. Come di abbigliamento, nella fattispecie di jeans, si occupa la bolognese Jeckerson, passata a Mittel SpA per 5 milioni di euro a seguito dell'asta fallimentare indetta dal Tribunale di Bologna. Infine, parlando di acquisizioni finalizzate a riportare in auge vecchi pezzi da novanta caduti in parziale (o totale, come in questo caso) disgrazia, come non citare la margherita di Guru, nata nel 1999 per iniziativa dell'istrionico parmigiano Matteo Cambi e fallita poi, nel 2008, dopo avere toccato quota 70 milioni di fatturato. Ebbene, al termine di alterne vicende societarie, i sei petali più famosi degli anni 2000 sono ora in mano alla società monegasca Ghep, prima licenziataria del brand e poi, da maggio 2021, titolare del pacchetto dei marchi Guru. Qui, la strategia del ceo Gianluca Sessarego è piuttosto chiara: design rinnovato e affidato ad artisti di fama (ma sempre con margherita in bella vista) da un lato e, dall'altro, una campagna di marketing passata, questa estate. Dal La Rossa Music Festival di Prato Nevoso (Cn), da un evento motoristico come il Fanatec GT World Challenge Tour e da una mecca della movida balneare come il ristorante ChezzGerdì di Formentera.