Ambrogio e Giovanni Folonari, con i duecento ettari delle Tenute toscane da un milione e mezzo di bottiglie l’anno, sono gli eredi di una vicenda partita dalla Lombardia all’inizio dell’Ottocento e arrivata fino in Puglia ma con il cuore ben radicato in Toscana, prima a Pontassieve con la Ruffino e poi oggi dal Chianti Classico alla Maremma attraverso Montalcino e Montepulciano. Da Italo e Francesco, grandi protagonisti dello sviluppo all’inizio del Novecento, fino a Nino, il padre di Ambrogio, l’uomo che volle introdurre anche in Italia le denominazioni alla francese e che portò il “vino quotidiano” nei fiaschi sulle tavole degli italiani.
L'ultimo arrivato si chiama Nino, e chiude in qualche modo più di un cerchio in una storia ormai più che secolare, distesa in lungo per tutta l’Italia, dalle montagne bresciane alle campagne pugliesi, ma con un cuore ben stabilizzato in Toscana. A Pontassieve prima, e da qualche anno nel Chianti Classico (ma non solo). Già, perché è stato proprio un Giovanni detto Nino, che era un ingegnere e un “ragazzo del ‘99”, quei giovanissimi che respinsero gli Austriaci e si ripresero i lembi d’Italia persi con la disfatta di Caporetto, a scrivere le pagine centrali nella lunga saga – vissuta tra le scarpe e il tessile, tra la finanza e il vino – della famiglia Folonari. Fu lui, per capirsi, a volere nei primi anni Sessanta l’istituzione delle denominazioni del vino, alla maniera dell’Aoc d’Oltralpe (non per nulla fu anche presidente di Federvini, in quegli anni), ma anche a credere nella bottiglia per il consumo quotidiano degli italiani, di quella gran massa di gente che aveva imparato a comprare il vino – allora considerato un alimento, un nutrimento di ristoro alle fatiche, non un elemento di puro piacere sensoriale com’è invece percepito oggi – a damigiane nelle osterie per poi infiascarlo in casa. Fu ancora lui, Giovanni detto Nino, a credere che l’azienda di famiglia dovesse avere nuove e più forti radici toscane, con l’acquisto della tenuta di Zano nel 1967 e poi di Nozzole nel 1971, mezzo secolo dopo che il padre Italo aveva impiantato la “base”, il cuore di tutto a Pontassieve, prima della Grande Guerra. E anzi, proprio a Giovanni detto Nino la Ruffino fu debitrice della ripartenza nel dopoguerra, della rinascita di stabilimenti bombardati e di un mondo che avrebbe scoraggiato i più. Ma non lui, che pure già aveva visto le macerie a Brescia, nei luoghi originari dei business di famiglia, come pure a Reggio Emilia e Lugo di Romagna: l’Ingegnere si inventò una nuova rotta, rilanciò gli stabilimenti in Puglia – a Barletta, Sansevero e Locorotondo – e con i primi milioni ricavati dalla vendita della Lacrima d’Oro, il vino dolce preferito dagli americani e dovuto all’ingegno dell’enologo Tito Juffmann, fece ripartire anche Pontassieve. Cioè la Ruffino, già celebre per la Riserva e per la Riserva Ducale Oro, creata nel 1927 per omaggiare il Duca d’Aosta, grande estimatore di quei vini.
Non è un caso, insomma, se l’ultimo nato nelle vigne dei Folonari si chiama dunque Cabreo Nino, se a dargli questo nome sono stati Ambrogio e Giovanni, figlio (anche lui per anni presidente di Federvino) e nipote dell’Ingegnere, e se questo rosso porta gli inconfondibili caratteri della terra che lo ha partorito, composto com’è per il 95 per cento di Sangiovese, l’uva regina dei vigneti nel Chianti Classico, a cui si aggiunge quel 5 per cento di Colorino che timbra definitivamente la toscanità del prodotto.
Una storia davvero speciale, raccontata in un libro e ancor oggi viva e palpitante tra filari, campagne, tenute, cantine, persone. Ci voleva, certo, Emanuela Zanotti con il suo pregevole “I Folonari: un’antica storia di vini e banche”, edito da Mursia e con la prefazione di Giovanni Bazoli, per tessere definitivamente la splendida matassa di questa storia, che si snoda attraverso cinque generazioni che hanno lasciato sul territorio un’orma indelebile di attitudine imprenditoriale e il messaggio umanissimo di una filosofia vincente del fare impresa. Talmente umana che prende avvio… con un calzolaio. È il capostipite, Lorenzo Folonari: nato a Cepina di Bormio in Valtellina nel 1729, ciabattino, trasferisce la famiglia in Val Camonica, destinata a diventare culla di una stirpe di imprenditori che legherà in modo indissolubile il proprio nome all’imprenditoria bresciana, dapprima attraverso il commercio, poi con la produzione di vino e, infine, promuovendo istituti di credito. Luigi segnerà una svolta: alla fine dell’Ottocento i Folonari scenderanno dalla Valle a Brescia dove verrà aperta la prima sede della ditta, ma sono i figli di Giovanni, Italo e Francesco, i protagonisti. Quelli che all’inizio del Novecento segnano la grande espansione del gruppo. Da loro nasce appunto la storia di banche e di vini. Perché i due sono fratelli, ma sono due personaggi completamente diversi.
Profondamente cattolico e legato agli ambienti ecclesiastici e al sociale locale Francesco: sobrio e pacato, sa che la sua vocazione è legata al mondo amministrativo e finanziario tanto che nel 1888 fonda a Brescia la Banca San Paolo. Infervorato dai grandi cambiamenti storici e imprenditoriali Italo, gentleman e laico convinto, tanto da partecipare anche ai destini d’Italia sedendo in Parlamento. Eppure, così diversi, Italo e Francesco operano in perfetta unità di intenti e di obiettivi. Insieme costruiscono la grande impresa del vino che in breve tempo si consolida; dopo aver acquisito nel 1911 la Chianti Ruffino in Toscana anche il Sud conoscerà la sua rinascita in Puglia, terra segnata dalla distruzione portata dal terribile nemico, la fillossera. Nel 1920 con l’acquisizione della Freund Ballor, azienda di vermouth, consoliderà la sua fama. Le loro strade si intrecciano anche nel mondo finanziario, visto che nel 1926 Italo verrà nominato vicepresidente del Credito Agrario bresciano, carica che rivestì sino al 1942, tracciando il doppio binario dello sviluppo: vini e banche. Italo e Francesco incarnano la matrice liberale e cattolica a cui si deve un costante impegno sociale. Attività di mecenatismo culturale e una riservata quanto importante filantropia: la costruzione della monumentale chiesa di Ludriano, la donazione al Movimento dei Focolari della sede di Loppiano, sulle colline tra Chianti e Valdarno, e la creazione a Brescia di una provvidenziale fondazione di assistenza ai minori indigenti. E così la storia dei Folonari si intreccia con le grandi vicende del Paese: antiaustriaci nel periodo risorgimentale, in prima linea durante la Grande Guerra e nella crisi del 1929 e protagonisti della rinascita nel secondo Dopoguerra. Tanto che l’intero Novecento è caratterizzato dalle figure di spicco degli eredi: Luigi, Giovanni detto Nino, Guido, Antonio, Francesco jr., Italo jr; e poi Ambrogio, Marco, Paolo e Alberto. Tutti lasciano più di un segno nella grande storia della famiglia e dell’azienda. Fino alle scelte di pubblicizzare “il vostro vino quotidiano” con i fiaschi di Ruffino, che a metà anni Settanta saranno rimpiazzati da una elegante bottiglia “fiorentina”.
Le idee di Giovanni detto Nino, l’Ingegnere, non si fermano con la sua morte avvenuta nel 1979. Ma nel 2000, dopo più di un secolo di lavoro collettivo, la famiglia prende la decisione di separarsi e seguire distinti progetti e razionalizzazione delle attività. Ambrogio lascia la Ruffino e il resto della famiglia per dare vita con il figlio Giovanni a un’azienda di spiccato carattere familiare, Ambrogio e Giovanni Folonari Tenute, in cui i viticoltori “ci mettono la faccia” e lavorano la filiera completa dalla vigna all’uva fino al vino, che sarà sempre un vino a denominazione, quindi imbottigliato all’origine, di spiccata identità, in cui non prevale mai la mano dell’enologo o del produttore quanto piuttosto le caratteristiche profonde del terroir. Parola magica: significa territorio e terreno, certo, ma anche aria e sole, cantine e case e vendemmie e occasioni, eventi e decisioni. E persone: quelle che tutto questo hanno messo in piedi e realizzato.