Rio de Janeiro, 9 agosto 2016 - Quando l’ho intravisto a Maranello, pochi mesi fa, sono stato sfiorato dal sospetto che Niccolò Campriani avesse deciso di cambiare mestiere. In effetti ha studiato ingegneria e il Dio della Formula Uno sa quanto bisogno abbia oggi la Rossa di bravi tecnici! E invece e per fortuna questo fiorentino dalla mira infallibile si era spinto nel Tempio dell’Automobilismo perché aveva in mente un’idea fantastica. Migliorare le imprese di Londra. Dove dai dieci metri aveva chiuso al secondo posto.
Dunque, Campriani a Maranello ci era andato per sperimentare soluzioni nuove da apportare al suo fucile, meglio, alla sua carabina. Dettagli minuscoli e però preziosissimi, da verificare in una sofisticata galleria del vento. Perché sono i particolari a creare la differenza fra un cecchino qualunque e un fuoriclasse, padrone dei nervi, in possesso di un autocontrollo pazzesco.
Che gara, sul serio! Sparare al bersaglio in una Olimpiade è come camminare sul filo teso tra due grattacieli. Senza paracadute sotto. Ogni colpo è una coltellata dritta dritta al cuore, perché basta un niente per precipitare nel vuoto della sconfitta, per restare impigliati nella ragnatela della delusione. E tutto questo Niccolò il Toscano lo sapeva, non di genio machiavellico avrebbe avuto bisogno ma di un superbo stile esistenziale, perché un tiratore non è semplicemente un uomo di sport, un tiratore deve conoscere la differenza sottile che passa tra l’estasi e la catastrofe.
Che gara, sul serio! Niccolò, ventinove anni a novembre, la visiera calata sul cranio lucido, un occhio chiuso, l’altro apertissimo, spalancato sull’orizzonte di gloria, non si è lasciato intimidire da un avvio complicato. C’erano un russo e un ucraino che sembravano in formissima e anche un simpatico indiano sparacchiava con una precisione inquietante. Roba da avvertire l’ossessione dell’ansia che sale, che ti prende alla gola, che ti manda in apnea.
Roba così, assolutamente normale, se non fosse che Campriani conosce il segreto della ricerca interiore. Piano piano, ha scavato dentro se stesso. In gioventù non erano mancate disillusioni amare, a volte aveva perso in extremis, allora si era confrontato con chi era passato attraverso le emozioni negative. Prima di ogni traguardo, da sempre, c’è un viaggio. Il viaggio dentro noi stessi. Devi vincere la paura di essere normale, devi accettarti per i difetti che hai. Così, sarai sicuro di arrivare.
E infatti. Tiro dopo tiro, quella carabina sviluppata in Ferrari si mostrava degna di chi la imbracciava, di chi la coccolava con lo sguardo negli istanti che precedono il tocco sul grilletto. Ci fosse stato Tex Willer, l’eroe dei fumetti, sarebbe stato degno di lui, di Niccolò per niente machiavellico, banalmente se stesso, irresistibilmente fantastico.
LE PAROLE. Ad un certo punto ha mollato l’indiano. L’amico collega di New Dehli non si è arrabbiato. Mi ha detto: vince il tuo italiano! Io temevo l’ucraino Kulish e il russo Maslennikov. Ma Campriani era tranquillo, sicuro, protetto dai suoi sentimenti, l’amore per Petra la collega, il legame con il padre. Nemmeno un guasto al mirino, nel finale estremo, lo ha condizionato.
‘Io sono anche arrivato a odiare questo sport, per le esigenze che impone, ma sono felice e non dimentico che dedicandomi alla carabina ho avuto tempo per papà, per la famiglia –ha raccontato Niccolò dopo- Ma c’era un motivo per andare avanti, adesso forse ce l’ho al collo, ancora non è finita la mia Olimpiade. L’epilogo è stata una liberazione, ho esultato come un calciatore, magari dovrò scusarmi con i miei colleghi, non si fa così, ma cercate di capirmi…’
E tu non scusarti, Niccolò. Sei il nostro Tex Willer. Ciao, ci vediamo per la gara dai 50 metri.