Sabato 21 Dicembre 2024
E. M. COLOMBO
Politica

La resistenza dei tecnici del Senato. I renziani: ‘manine’ anti riforma

L’accusa: opposizioni e minoranza Pd aiutati dai super funzionari

Renzi alla festa dell'Unità di Villalunga, Reggio Emilia (Ansa)

Roma, 14 agosto 2015 - MATTEO Renzi, più che alla minoranza dem – che, per carità, ogni giorno richiede la sua croce – e ai 28 senatori vietcong pronti a impallinarlo, nel Vietnam di palazzo Madama, con i loro 17 emendamenti killer, deve stare attento, da qui all’8 settembre, quando si riapriranno i giochi sulla riforma del Senato, a tre persone che governano e comandano per davvero, tra gli austeri stucchi e saloni del Senato della Repubblica.

Il primo è il presidente Pietro Grasso: lì assurto, dalla notte per la mattina, da Pier Luigi Bersani, detesta Renzi, cordialmente ricambiato, e coltiva il sogno di scalzarlo e sostituirlo al governo. Seconda e terzo sono meno noti. La prima si chiama Elisabetta Serafin e ricopre, da tre anni, il ruolo di segretario generale del Senato (la prima volta, per un donna): reddito annuo 427 mila euro. La sua retribuzione, a inizio incarico (2012), era di 419 mila euro, ma Palazzo Madama prevede incrementi automatici del 2% a biennio: ergo, il suo stipendio è aumentato di 10 mila euro e corrisponde a quasi il doppio di quanto guadagna il Capo dello Stato, anche se il vero record del privilegio resta al segretario generale di Montecitorio, Ugo Zampetti, che ne prende 478 mila.

IL TERZO si chiama Federico Toniato: dopo essere stato, a 36 anni, il più giovane vicesegretario generale della presidenza del Consiglio, sotto Mario Monti, Toniato, a soli 39 anni, è diventato, un anno fa, il più giovane vicesegretario generale della storia del Parlamento. A Toniato è affidata la delega alla cruciale «prima area» (settori legislativi, Assemblea, commissioni, etc.): non percepisce indennità aggiuntive, ma un consigliere parlamentare (sono ben 97, al Senato) può arrivare comunque a guadagnare 300 mila euro (dai 271 mila euro con 23 anni di servizio ai 358 mila con 35 anni di carriera).

Ora, la voce che gira nei Palazzi è che queste tre figure apicali, coadiuvati dallo stuolo di funzionari di palazzo Madama (97 consiglieri, 34 stenografi, 130 segretari, 263 coadiutori, 171 assistenti: un totale di 696 unità in organico, stipendi da 1.668 mila euro mensili ai 3.268 mila euro, sempre netti), abbiano qualche perplessità, proprio come i senatori, a fare la parte dei tacchini che festeggiano il Natale. Non amerebbero né poco né punto che il ddl Boschi (riforma del Senato e del Titolo V) passi così com’è, specie nella parte che riguarda l’abolizione del Senato elettivo e dei suoi poteri di cui tali funzionari sono i solerti, silenziosi e, invero, preparatissimi civil servant.

E questo per tre motivi: potrebbero perdere posti (la sola Camera dei Deputati, che oggi consta di 1494 funzionari, peraltro ben più lautamente pagati di loro, arriverebbe all’astronomica cifra di 2190 unità); potrebbero perdere, tra le altre cose, indennità e funzioni; e, infine, perderebbero potere.

Non a caso, si dice sempre tra i senatori renziani – abituati (lo si sa), a pensar male – sarebbero stati loro tre – Grasso, Serafin e, pare, in pole position proprio il giovane Toniato, «la Trimurti del Palazzo» – a “ispirare” i senatori della minoranza dem e di altre opposizioni (M5S, Sel, Misto, FI), spesso zoppicanti o digiune di tecnica parlamentare e diritto costituzionale, nella stesura degli emendamenti.

Quelli «killer». Quelli che, appunto, puntano a far tornare il Senato com’era e (ancora) è: elettivo. Infine, il terzo indizio che, diceva Sherlock Holmes, fa una prova. Persino il dossier che gli uffici del Senato ha preparato, sul ddl Boschi, sarebbe pieno di «capziosità e tendenziosità che, travestite dal gergo tecnico degli addetti ai lavori, gettano solo cattiva luce sulla riforma del governo» notano professori e deputati ferrati in materia.

INSOMMA, per chi lavora il vertice di palazzo Madama e i loro (bravi, non c’è che dire) funzionari, quella «tecnostruttura» che persino dentro palazzo Chigi temono perché potrebbe mettersi di traverso al buon esito della «madre di tutte le riforme», il ddl Boschi? Per il «re di Prussia», e cioè per il fronte colorito delle opposizioni: vietcong dem, grillini, leghisti e senatori di ogni colore, ordine e grado che vogliono continuare a contare da eletti nel Senato del futuro.

Come ha detto il castigamatti del premier, come di ogni senatore, il leghista Roberto Calderoli - presentatore, da solo, di quei 510.293 emendamenti (su 513.449) al ddl Boschi che hanno costretto proprio la Serafin a richiamare dalle ferie 150 dei suoi funzionari per farvi fronte - «conviene anche a loro, ai funzionari del Senato, lavorare d’estate che stanno per diventare, anche loro, tutti dei precari...».

Emendamenti o no, Renzi tira dritto. Ieri sera alla festa Pd di Reggio Emilia ha detto che la riforma si farà «con o senza Forza Italia.»