Lunedì 9 Settembre 2024
sandro rogari
Politica

Premier senza partito. Ora serve il dialogo

E' il momento più difficile per il governo, distratto sulla via delle riforme dalla bomba profughi e dalla Grecia

IN POLITICA vige una regola. Prima si conquista il partito. Poi lo si controlla. Quindi, se l’ambizione urge, si punta più in alto. Così fecero Mitterrand prima di trasferirsi all’Eliseo e Blair prima di mettere residenza al 10 di Downing Street. Anche i vecchi leader democristiani rispettavano la regola. Così fece Fanfani nel ’54 e rifece De Mita nel ’82. Poi, quando da piazza del Gesù traslocarono a palazzo Chigi persero tutto. Per i capibastone della Dc segreteria del partito e premierato assieme era troppo potere.

Renzi ha fatto lo stesso percorso, ma in tempi assai più ravvicinati, fidando nella forza di Palazzo Chigi per arrivare a controllare il Pd; ma la fortuna aveva un nome, ripresa economica forte e rapida, e non lo ha aiutato. Non è arrivata. O meglio, c’è ma lenta, incerta, priva di quello slancio deciso che crea fiducia diffusa. Mancando questo piedistallo solido anche l’altro, il partito, tutto da costruire, non si è solidificato attorno a lui. Così Renzi ottiene un bel risultato personale quando va a chiedere i voti per sé, come alle elezioni europee.

MA QUANDO contano i mille rivoli locali del partito, i quadri, le persone, i candidati, le beghe sono dolori. La macchina non risponde o semplicemente va per il verso che vuole, anche quando il leader ci gioca la faccia. Si veda il caso De Luca in Campania, che ha vinto ma trascinando il premier in un inestricabile strascico giuridico. Si veda il caso Casson a Venezia, il candidato meno gradito al premier che pure si è speso in prima persona per sostenerlo. Forse un candidato magistrato era l’unica risposta possibile per cercare di recuperare credibilità al partito dopo un anno di commissariamento del comune, ma ha perso e con ampio margine. Civati dirà che è colpa di Renzi. E si veda il caso del Pd romano. Magari con un segretario più attento al partito non sarebbe cambiato nulla, ma un deficit di controllo c’è stato.

POI CI SONO le evenienze meno ponderabili. C’è il flusso dirompente dei profughi, una bomba a orologeria che l’Europa ci lascia volentieri in mano. C’è il probabile default della Grecia che ci può far perdere una cinquantina di miliardi di botto e affossare i timidi segnali di ripresa economica ai quali ci aggrappiamo con sentimenti da ultima spiaggia. E c’è la Consulta che potrebbe destabilizzare la finanza pubblica se sugli scatti stipendiali pregressi deliberasse in linea con quanto fatto sulle pensioni. Tutte evenienze che il governo deve fronteggiare perché è il suo mestiere, ma che lo distolgono dalla via maestra delle grandi riforme strutturali.

Questo è il momento più difficile per il governo, dai suoi esordi. La cifra che Renzi ha considerato vincente è stata la velocità e la determinazione nelle decisioni. Resta valida, ma va accompagnata ad una maggiore disponibilità al dialogo e ad una maggiore attenzione al partito. L’alternativa sono le elezioni anticipate. Ma oggi sarebbero un salto nel buio.

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