Roma, 6 maggio 2017 - L’ultima perla, dopo un tweet malandrino in cui "un intervento" era diventato "un’intervento" con l’apostrofo, segno che non è solo il congiuntivo, ma tutta la lingua italiana a restare indigesta al candidato premier del M5s Luigi Di Maio. Ieri, però, il giovane vicepresidente della Camera, reduce da una trasferta negli Usa, dove ha incontrato alcuni studenti e ricercatori della Kennedy School (una scuola di specializzazione, visitata dopo l’incontro con gli studenti della prestigiosa università di Harvard) ha infilato uno strafalcione di politica estera.
"Sulla Libia abbiamo sbagliato a fidarci di Sarraj – ha detto – Venezuela e Cuba possono mediare". Sostenendo, con questo, che l’attuale crisi può essere mediata da Paesi senza interessi, tipo quelli sudamericani del gruppo Alba (Alleanza bolivariana di cui fanno parte Cuba e Venezuela, ndr). Tesi tanto ardita da suscitare, per dirla con Pier Ferdinando Casini, "ilarità diffusa". Ma Di Maio, oltre alla storia e alla geografia, fa anche un po’ di confusione con le lingue. Alla Kennedy ha sbagliato a leggere il discorso in inglese, esordendo con un "first of us" (che significa, "il primo di noi") anziché con "first of all" (che vuol dire "prima di tutto").
Il vicepresidente della Camera ci ha abituato anche ad altro. In tv, ricordando lo scomparso sociologo Luciano Gallino, luminare della cultura d’impresa, lo ha chiamato "lo psicologo Gallini". Si è fatto fotografare con il fratello di un pentito del clan dei Casalesi sotto processo per il disastro ambientale della Terra dei fuochi, peraltro suo bacino elettorale. Per non parlare di quando, in visita in Israele, si è lamentato di non essere stato ammesso a visitare la Striscia di Gaza o quando ha detto che dalla Romania "l’Italia importa solo criminali".
Insomma, un gaffeur robusto, Di Maio. Che nonostante gli inciampi corretti spesso dopo aver saggiato le reazioni, ha creato più di un dubbio sulla sua reale preparazione politica. Ne ha dato prova il 15 maggio 2014, alla vigilia delle elezioni europee. Ad Otto e Mezzo, su La 7, attaccò il Pd perché candidava "personaggi come Soru, indagato per riciclaggio: andava a portare i soldi nei paradisi off shore, secondo le accuse". In realtà quella accusa non è mai esistita. E Soru lo ha querelato. Siamo, poi, al 21 luglio 2016, quando Di Maio, su Facebook parlò di lobby citando anche quella "dei malati di cancro" e lì furono polemiche dense come quando, il 13 settembre 2016, paragonò Renzi a un dittatore sudamericano, che "ha occupato con arroganza la cosa pubblica, come ai tempi di Pinochet (dittatore cileno) in Venezuela".
Quella volta gli piovvero addosso anche insulti, oltre alle risate. Le stesse che sono ormai corollario fisso ai suoi svarioni sul congiuntivo; il 13 gennaio 2017 ha sbagliato tre volte di seguito, in tre diversi messaggi, la declinazione del verbo spiare: "Se c’è il rischio che soggetti spiano massime istituzioni dello Stato, qual è livello di sicurezza che si garantisce alle imprese e ai cittadini?", primo messaggio. "Se c’è rischio che massime istituzioni dello Stato venissero spiate, qual è livello di sicurezza...", secondo messaggio. "Se c’è il rischio che due soggetti spiassero le massime istituzioni dello Stato, qual è il livello di sicurezza…", terzo messaggio. Un bagno di sangue, sui social. A cui si aggiunse uno scivolone durante il comizio stellato a Nettuno: "Come se presentassi 20 esposti contro Renzi – ecco la frase – lo iscrivessero nel registro degli indagati, poi verrei in piazza e urlerei Renzi è indagato".