Fermo, 8 luglio 2016 - Chimiary parla e piange, da due giorni non mangia e non dorme e piange soltanto, forte. Grida e prega per il marito Emmanuel, parla solo inglese e ogni tanto sviene dal dolore che sente nel cuore, lei che di dolore ne ha visto e vissuto già tanto. È rinchiusa tra le mura amiche del Seminario arcivescovile di Fermo, cammina avanti e indietro, non trova pace e spera che almeno per il suo amore ci sia la quiete. «Voglio giustizia, voglio sapere che Emmanuel non è morto invano»».
Chimiary, quanta strada avete fatto insieme lei ed Emmanuel?
«Vivevamo in Nigeria con la nostra bambina di due anni. Io studiavo Medicina, ero al secondo anno. Abitavamo con la famiglia di mio marito, un giorno che eravamo fuori sono arrivati gli uomini di Boko Haram, hanno massacrato tutta la nostra famiglia, non abbiamo trovato più nessuno, la nostra bambina non c’era più».
Voi però sempre insieme, cosa avete fatto a quel punto?
«Noi ci siamo sempre tenuti per mano, anche qui ci tenevamo sempre per mano. Suor Rita e suor Filomena ci chiamava gli sposini. Siamo partiti perché non avevamo più nulla. Abbiamo dormito all’aperto, abbiamo attraversato il Niger ma non conoscevamo nessuno, poi abbiamo trovato una sistemazione in Libia, un appoggio. Io ero incinta di tre mesi»».
Anche in Libia avete attraversato l’orrore, anche quella volta Emmanuel l’ha difesa?
«Un giorno ero sola in casa, hanno suonato ed erano cinque uomini incappucciati, mi hanno chiesto se ero musulmana, io gli ho detto che sono cristiana e allora hanno cominciato a picchiarmi forte, anche sulla pancia. Mi ha salvato mio marito che è tornato ma stavo comunque male. Ci sono stati dei morti, c’era tanta violenza, siamo dovuti partire al più presto, abbiamo preso il gommone in 140, Emmanuel era lontano da me, io stavo male e chiedevo aiuto ma nessuno poteva fare niente per me. Il bambino l’ho perso e siamo stati tanto male, siamo stati per mare tre giorni, il quarto giorno è arrivata la nave italiana».
Come è stata l’accoglienza a Fermo?
«Ci siamo sentiti subito accolti, ci avevano detto che io sarei dovuta andare in un’altra struttura perché al seminario ci sono solo uomini ma io lontana da Emmanuel non ci voglio stare, non ci posso stare. Suor Rita ci ha permesso di stare qui. Siamo stati tanto bene, suor Rita, Suor Filomena, don Vinicio hanno fatto tanto per me, per noi. Don Vinicio ha trovato il modo di sposarci, anche se non avevamo documenti, eravamo molto felici». Piange forte Chimiary, la voce le si impasta tra le lacrime, il viso stravolto dalla sofferenza. Ha chiesto una Bibbia, si aggrappa a Dio e spera di trovare un po’ di sollievo.
E adesso?
«Quel giorno mi hanno detto brutte parole, mi hanno chiamato brutta scimmia africana, c’è stata molta violenza. Ci hanno picchiato di nuovo. Quando mi hanno detto che Emmanuel era morto non ci volevo credere. Io non voglio vivere senza di lui».
Cosa spera ora?
«Spero che abbia trovato la pace, spero che abbia giustizia. Vorrei riportarlo in Nigeria appena possibile, a casa. Grazie a tutti quelli che mi stanno aiutando, a don Vinicio». Poi si gira, si affanna, si sbraccia: sta cercando la mano del suo Emmanuel, ma non c’è e allora si ferma e prega.