Roma, 7 marzo 2016 -Umiliazioni e sottrazioni per entrare in una taglia 40 e sentirsi dire che non bastava. Erano i giorni della dittatura della lattuga. Obbediva, spiluccava, poi correva a smaltire in palestra le calorie da criceto. Non si sarebbe mai sentita tanto grassa come quando era magra. Se le ordinavano di infilarsi un paio di calzoncini tremava. Avrebbero scoperto che era fatta di carne. Troppa. Anche se faceva risplendere i tailleur di Jean Paul Gaultier e i suoi capelli rossi accendevano il nero Armani. Cinquanta chili per un metro e ottanta che andavano a piantarsi tutti lì rovinando la scheletrica perfezione di un femore. Un giorno alle sfilate di Milano il responsabile del casting le strizzò disgustato una coscia e si mise a strillare: «No, no, no, è enorme». Fu in quel momento che Sabina Karlsson decise di smettere, anche se per la cronaca fu la sua agenzia a scaricarla. E il suo corpo che a 17 anni era passato dai 60 chili di un’adolescente in salute alla soglia dell’anoressia incominciò a prendersi la rivincita. Fiorì poco alla volta come certe piante da penombra e dopo un anno sabbatico lontano dalle passerelle, il 2010, alle passerelle venne riconsegnata. Trasformata, sicura, abbagliante. Nessuno, da lì in poi, ha più osato sfiorarle una gamba, nemmeno per verificare la caduta di certa lingerie. L’esile modella con metà sangue svedese e metà africano oggi, a 27 anni, è un’icona della moda curvy, rende giustizia a tutte le taglie 50 e lavora più di prima, anche mezza nuda. È felice, non tornerebbe indietro. Dice: «Questo è un sogno che si avvera: avere successo con il corpo che ho». Si perdonano gli ex fumatori che diventano salutisti talebani, si può essere indulgenti con lei che dall’olimpo del mondo extra large utilizza i social per campagne toste contro gli standard imposti dalle griffe. Altro che criceti: «A volte le modelle non sono trattate come esseri umani ma come semplici prodotti». Questo nessuno aveva avuto il coraggio di spiegarlo a lei e a suo padre quando entrarono in un negozio di parrucchiere per comprare qualcosa che disciplinasse la criniera della bella bambina esotica. Aveva 4 anni ed era un capolavoro di genetica: «La mia faccia ha i tratti africani di mamma; naso, labbra, zigomi. E poi c’è il lato svedese di papà, la pelle chiara con le efelidi». Cinquanta e cinquanta, con quei capelli indomabili che il parrucchiere prenotò per un servizio fotografico. Qualche settimana dopo aveva il suo primo lavoro da modella, transitare dai vestitini all’alta moda fu un atterraggio morbido che Sabina prese sul serio: «È come nello sport. C’è chi gioca a calcio tutta la vita e finisce per vivere solo di quello, per respirarci dentro». Alimentava lo sfarzo, ma digiunava. E finalmente fu chiaro che la moda dei grandi ha aspettative fisiche rigorose, che può diventare uno sport demoralizzante e pericoloso. Le dissero che per le prime sfilate milanesi doveva perdere peso: «Potevo farcela, dovevo provarlo a me stessa». Entrò nella 40, ma combattere con il proprio corpo pretese un tributo emotivo altissimo: «Non ero più me stessa». Così si tirò fuori e, quando rientrò nel gioco, lo fece alle sue condizioni: «Accettare il mio corpo mi ha cambiata come persona. Ho persino iniziato a indossare gli short». Un po’ ha contribuito la saggezza dell’età, un po’ lavorare con donne di tutte le forme e dimensioni. «La bellezza – dice – è un arcobaleno. Oggi le modelle plus-size sono un piccolo esercito plurispecializzato: scrivono, fanno spettacoli, sono la gioia dei fotografi». La sua gioia sono una t-shirt, gli stivali da biker e un paio di jeans. Possibilmente a vita alta.
ModaLa top model che visse due volte. "Io, da super magra a icona curvy"