Domenica 22 Dicembre 2024
PIERO DEGLI ANTONI
Cronaca

La scrittrice: basta maschi ai fornelli. "Una discriminazione secolare"

Simonetta Agnello Hornby: "Alcuni programmi come Hell’s Kitchen sono pieni di volgarità". Ma avverte: le quote rosa non servono

La scrittrice Simonetta Agnello Hornby (Olycom)

Roma, 1 marzo 2016 - SIMONETTA Agnello Hornby è una avvocato e scrittrice italiana naturalizzata inglese. Nei suoi libri il tema della cucina è molto importante. È stata anche protagonista, insieme con la sorella Chiara, del programma “Il pranzo di Mosè”, dedicato proprio alla realizzazione di antiche ricette tradizionali siciliane.

Sembra che oggi – soprattutto sui mezzi di comunicazione – gli chef siano tutti e soltanto maschi. Anche in questo settore c’è una discriminazione di genere? «Ma è sempre stato così. Anche in passato le donne pulivano le verdure, mentre gli uomini preparavano i pranzi per i re. Oggi la cucina è faticosa, bisogna trascorrere molte ore in piedi, bisogna sollevare molti pesi. Ma non credo sia questo il motivo, ormai le donne sollevano di tutto. Come in tanti lavori anche qui predominano gli uomini imponendo le loro caratteristiche meno piacevoli. Faccio un esempio: prendiamo Gordon Ramsey, sicuramente il cuoco inglese più noto, protagonista del programma “Hell’s Kitchen”. In una puntata ricordo che parlava delle frattaglie, diceva come fosse sensuale maneggiarle, toccarle, accarezzarle. Ramsey abbonda in turpiloquio, i suoi programmi sono pieni di volgarità. Credo che le donne, che magari aspirano a diventare chef, pensino: in questo ambiente non ci voglio stare. Io, che non sono chef, non vorrei stare in un ambiente così sgradevole».

Un concorso per sole chef donne può aiutare? «Mi dispiace vedere una cosa del genere. Preferirei che ci fosse un concorso per uomini e donne dove insieme si cerchi di riportare la cucina a una dimensione di arte piuttosto che di show business. Un altro esempio: qui in Inghilterra, dove vivo, è molto famosa Mary Berry, un giornalista-cuoca ottantenne, molto educata, gentilissima, che da 60 anni si occupa di cucina con grande signorilità, mantenendo la propria dignità».

C’è qualcos’altro che ostacola la parità tra uomini e donne in questo campo? «È chiaro che se una donna ha una famiglia, se ha un bambino da allattare, a un certo punto deve comunque tornare a casa. Ma dovrebbe essere la legislazione a proteggerla. Credo che un concorso per sole chef donna non sia la soluzione. Bisognerebbe al contrario cominciare a chiedersi perché tante donne non vogliono impegnarsi nella cucina ad alto livello. Ma non parliamo solo di donne: dovremmo pensare anche agli stranieri, agli immigranti, ai bianchi ma anche ai neri».

Dunque lei non crede alla validità delle quote rosa? «Una volta era necessario, per incoraggiare le donne a impegnarsi in un determinato lavoro. Ma oggi non più. Purtroppo noi donne – che siamo la maggioranza – non capiamo quanto potente possa essere un gruppo unito, e preferiamo procedere come cani sciolti. Io, quando ero giovane mamma, invece di chiedere allo Stato, insieme con le altre mamme, degli asili, preferivo affittare una stanza e ingaggiare una baby sitter per tenere i miei figli mentre studiavo da avvocato. E parlo da un Paese dove c’è una regina, dove c’è stato un primo ministro donna come la Thatcher. Eppure fino a non molti anni fa noi donne, per firmare la dichiarazione dei redditi, dovevamo chiedere il permesso al marito».

Nella stragrande maggioranza delle case a cucinare sono le donne. Invece i grandi chef sono quasi tutti uomini. Come mai? «Noi svolgiamo il lavoro quotidiano di ogni giorno. Mio marito ogni domenica faceva un arrosto squisito, poi – dopo il pranzo – andava a guardare la tv mentre io passavo il resto della giornata a pulire la cucina. Agli uomini sono riservate poche occasioni speciali, a noi donne la bassa manovalanza».