«SI RIPARTE da zero, dalla differenza fra 23 e 31 millimetri, ossia fra la lunghezza della pallottola trovata nel capo del pescatore Jelestine e quelle in dotazione ai marò. Si dovrebbe istituire una commissione parlamentare d’inchiesta», sintetizza l’ambasciatore ed ex ministro degli esteri Giulio Terzi commentando le notizie pubblicate ieri da questo giornale sull’autopsia. Dopo che i sottufficiali furono rispediti in India, rese pubblico il suo dissenso lasciando la Farnesina.
Il processo ai marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone pare del tutto sprovvisto di basi di prova concrete. Quindi?
«Quello che è emerso dimostra in modo inconfutabile la loro assoluta estraneità rispetto alla vicenda, certamente triste e dolorosa, dell’uccisione dei due pescatori».
Un processo basato sul nulla è in piedi da oltre tre anni?
«Le autorità indiane hanno tenuto in piedi una costruzione basata su prove del tutto inesistenti, anzi su elementi che dimostrano che i responsabili non sono i marò».
Ora che cosa deve fare Roma?
«Chiedere l’immediato ritorno dei due soldati sotto la sua giurisdizione».
Come?
«Non solo proseguendo l’iter dell’arbitrato, ma alla luce del nuovo clamoroso elemento emerso, l’autopsia, si dovrebbe avviare una forte azione internazionale e bilaterale in tutte le sedi possibili perché l’India receda dall’assurda volontà di tenere in piedi un processo illegittimo, non solo dal punto di vista della competenza a giudicare, ma anche per una totale assenza di elementi che consentano l’avvio di un’indagine. L’inchiesta è stata avviata non solo in modo del tutto pretestuoso e costruito su prove inesistenti. Il semplice arbitrato ora non basta più».
In quali sedi bisognerebbe agire?
«Unione Europea, Onu e Nato, perché stiamo parlando di azioni antipirateria. Purtroppo anche in Italia si sono alzate voci importanti contro chi sosteneva l’innocenza dei marò».
Si è tentata lungamente anche la via del negoziato.
«I governi Letta e Renzi avevano avviato un’iniziativa per raggiungere una qualche forma di compromesso. Le fonti indiane avevano fatto trapelare che poteva tradursi in una sorta di riconoscimento di colpevolezza da parte italiana che sarebbe poi sfociata in uno scambio di condannati».
Una strategia sbagliata.
«Lo dimostrano sia l’autopsia sia le prove della coercizione esercitata da Delhi. Era sbagliata l’idea che si potesse scendere a patti senza difendere con il massimo rigore l’innocenza dei nostri sottufficiali. In molti dovrebbero chiedere scusa a Latorre e a Girone».
È possibile ricavare un insegnamento da questa vicenda?
«Dimostra quanto si debba avere più coesione e rispetto nei confronti delle nostre Forze Armate e della tutela dei loro uomini».
Che cosa prevede per la seduta del Tribunale del diritto internazionale sul mare in calendario per la fine del mese?
«I giudici dovrebbero esprimersi sulla possibilità di Girone di tornare in Italia e di Latorre di restarci, ma alla luce dei fatti che lei ha evidenziato, il dibattimento dovrà accendere molti riflettori sull’autopsia. È talmente rilevante nel dimostrare la malafede degli investigatori indiani che dovrebbe far crollare tutte le considerazioni procedurali sulla competenza del giudizio. Il fatto semplicemente non esiste per quanto riguarda la responsabilità dei nostri due militari».
Perché auspica anche un’inchiesta del Parlamento?
«Più emergono i documenti indiani e anche italiani, più si conferma come assolutamente necessaria e urgente».
Carte italiane?
«Penso alla lettera della Croce Rossa del luglio dell’anno scorso che non ha avuto nessun seguito, e alla nota del capo di gabinetto del ministro della giustizia Paola Severino che all’inizio del mese di marzo 2013 dimostrava come fosse costituzionalmente impossibile rimandare Latorre e Girone in India».