Chi è quell'artista che non ambirebbe, spostando l'ora in avanti il più possibile ovviamente, morire in palcoscenico. Molière andava in scena tossendo e sputando sangue, ma volle continuare a farlo fino a che la morte non arrivò, durante, e qui siamo alla catarsi più elevata, una rappresentazione de “Il malato immaginario”. E Bergman, nel Settimo Sigillo, ha rappresentato questo momento quasi invocato con la sua maestria: la morte falciatrice. Mango se lo sarebbe senz'altro evitato, giovane sessantenne com'era, ma proprio per interpretare questo destino ha detto poche parole al suo pubblico che lo stava seguendo a Policoro: scusate, non sto troppo bene. Poco dopo, sull'ambulanza che lo portava in ospedale, la morte. Ma non importa e non cambia nulla: è morto sul palco, è morto facendo quello che amava. Proprio l'altra sera, in un programma di Marzullo captato casualmente durante uno zapping, ho sentito dire da un attore teatrale: spero di andare avanti con questo lavoro fino a che la morte non mi coglierà sul palco. E non c'era speculazione in tali parole, erano sincere.
La morte sul palco rafforza il mito. Miriam Makeba, la grande voce anti-segregazione, morì sempre nel nostro sud, a Castel Volturno; l'infarto la colse scendendo le scalette del palcoscenico dopo un concerto il 9 novembre 2008. Mama Afrika era andata a celebrare i sei immigrati uccisi dalla camorra in quella difficile parte della Campania regno dei casalesi; aveva voluto cantare lo stesso, in quella serata dedicata alla legalità e a Roberto Saviano, nonostante avesse forti dolori al petto. Ma non si tirò indietro, dette tutto, forse immaginava sarebbe arrivata la fine così epica, nonostante la gente capisse che la regina della musica sudafricana stesse male. Mango è morto nella sua terra, quasi a volere legare ancor di più, indissolubilmente, il suo nome alla Basilicata, la regione che amava e dove viveva. Lucio Dalla, altro grande nome dello spettacolo, è invece morto al mattina dopo un concerto. Ma non aveva bisogno di questo per passare alla storia.
Ciò che gli artisti provano, questa estremizzazione della loro condizione, è inconscia. L'arte è tutto, fino all'ultimo momento non si vuole cedere al destino. E il destino disegna situazioni che sono magiche. Mango è morto vicino a casa, fra la sua gente. E stava cantando “Oro”, non una canzone qualsiasi, quando si è sentito male. Una delle sue canzoni che rimarranno nella mente della gente, uno di quei brani che hanno fatto di Mango il genio del “pop mediterraneo”. Che aveva scritto anche questi due versi profetici: “Non moriremo mai, il senso è tutto qui, mi piace questa idea di identità”. Un epitaffio che si sposa bene con ciò che è avvenuto.
Un film straordinario di Bob Fosse del 1979, “All that jazz. Lo spettacolo continua”, è probabilmente la rappresentazione più completa di ciò che cercavo di spiegare. Fosse (“Cabaret”, “Lenny”, “Star 80” fra i suoi capolavori oltre a un'attività di coreografo e regista teatrale come pochi) soffriva di cuore e continuava a sfidare la sua condizione. Sullo schermo, Joe Gideon, il suo alter ego (uno straordinario Roy Scheider), balla e vive pericolosamente (donne, alcol, droga e tutto quanto possibile e non) fino a quando il cuore non gli scoppia: gli ultimi minuti del film sono l'operazione a cuore aperto rivissuta come un enorme musical, fino a che le allucinazioni non vedono Joe indirizzarsi verso una signora in bianco che lo chiude in un telo. E' la morte sognata da Bob Fosse e raggiunta quasi nelle stesse condizioni otto anni dopo.
Mango non pensava di lasciarci così presto, ma la sua morte – un dolore per tutti quelli che lo conoscevano e lo stimavano – rappresenta questo spettacolo, pronto a darti tutto, ma anche a togliertelo in un attimo. L'importante è avere vissuto fino in fondo, e Mango lo ha fatto.