
L’abbraccio di Muti ai profughi in Giordania
di Stefano Marchetti
JERASH (Giordania)
Viaggiare è avere nuovi occhi, scriveva Marcel Proust. Per noi sono gli occhi di Mohamed, 24 anni, che da più di dieci vive al campo profughi di Za’atari dopo essere fuggito dalla Siria, e ha imparato a suonare il violino guardando video su Youtube: "Non mi sembra vero di poter incontrare il maestro Muti – ci confessa –. Come vorrei studiare musica in Europa". O quelli di Firas, figlio di un virtuoso dell’oud (il liuto di radici persiane) che ama alla follia la colonna sonora del Padrino composta da Nino Rota. E ancora lo sguardo, che luccica dietro il velo, di una ragazza di 22 anni che ci rivela un suo desiderio: "Ho finito gli studi, ora vorrei farmi una vita in Canada. Chi potrebbe aiutarmi?"
È iniziato proprio qui, in un luogo di disperate speranze e di mille sogni, il nuovo viaggio delle “Vie dell’Amicizia“ di Ravenna Festival che da 27 anni portano la musica dove c’è bisogno di un abbraccio, proprio come la Giordania ha saputo accogliere decine di migliaia di siriani scappati dalla guerra. Nel campo gestito dall’Unchr (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) a 15 miglia dal confine con la Siria, vivono più di 80mila persone e oltre la metà hanno meno di 18 anni: 23mila bimbi nati qui non hanno mai visto la terra dei loro genitori. La città di prefabbricati è fatta di scuole, punti di soccorso, piccoli negozi che si allineano lungo la strada centrale (rinominata Champs-Elysée), e anche un insegnamento della musica "che per alcuni profughi è una terapia per superare il trauma e custodire le radici", spiegano i responsabili.
Riccardo Muti ha voluto portare proprio a Za’atari la carezza di quella musica che cura e che ama. Ha offerto in dono strumenti tradizionali, e ha chiesto agli ottoni della sua Orchestra giovanile Cherubini di suonare le nostre canzoni popolari, Azzurro, Nel blu dipinto di blu e perfino Romagna mia, inno di una terra forte che non si piega alle avversità. I ragazzi del campo hanno ricambiato con brani che evocano gli echi d’Oriente, intonandoli insieme a Mirna Kassis e Razek-François Bitar, siriani della diaspora, protagonisti delle “Vie dell’Amicizia“.
Alla fine si sono uniti tutti, e la gente del campo ha iniziato a ballare, come in un cerchio magico. "Dal cuore al cuore, come scrisse Beethoven: un esempio di convivenza e di fratellanza – ha commentato il Maestro –. La musica davvero può tutto questo".
In terra giordana, fra le vestigia dell’antica Roma, l’incontro fra le culture si racconta in tutta la sua bellezza. A Jerash, che fu Gerasa, gli scavi hanno restituito anche il teatro meridionale di duemila anni fa, una cavea dall’acustica perfetta che si è illuminata per l’affascinante concerto diretto da Muti con i suoi Cherubini, il coro Cremona Antiqua preparato da Antonio Greco e i musicisti del Conservatorio di Amman.
Nel secondo atto di Orfeo ed Euridice di Gluck, il controtenore Filippo Mineccia rivive l’amore toccante di un uomo che varca il confine con l’aldilà per riportare a sé l’amata, poi il soprano Monica Conesa, in Casta Diva di Bellini (interrotta rispettosamente e ripresa dopo il canto del muezzin), rivolge una preghiera alla luna che guarda tutto il mondo. "Ignobile questo tempo che ci trova rassegnati. Prego Dio di illuminare il cuore afflitto", recita un’antica poesia siriana affidata alle voci di Mirna e Razek, "Raccontami del mio paese, la brezza che soffia fra gli alberi", prosegue Zain Awad, ammiratissima star giordana, "Dio mio che estasi", è il suggello del tenore Ady Naber.
Tutto si risolve nell’affresco, grandioso e potente, del Canto del destino di Brahms, una riflessione sulla vita e sulla morte, che – come ha annotato il Maestro – si conclude in un accordo di luce. "Siamo venuti qui per onorare questo grande popolo, per quello che sta facendo per aiutare le persone che soffrono", ha detto Riccardo Muti, e i ministri della Cultura e del Turismo lo hanno ammantato nella bandiera giordana. Con gli stessi sentimenti, il concerto dell’Amicizia si rinnoverà stasera nel Teatro grande della nostra Pompei, un’altra città riemersa dal silenzio del tempo. "Grana multa una hostia", servono tanti chicchi di grano per fare una sola ostia, era il motto del cardinale Corrado Ursi che Riccardo Muti evoca con commozione. Possiamo parlare lingue diverse o rivolgerci a Dio chiamandolo con nomi differenti: ma siamo tutti dalla stessa parte.