Dottor Cajelli, mi è scappato un punto esclamativo di troppo nel condividere l’ultimo post. E’ grave?
"Chi più e chi meno, siamo tutti idioti digitali. La differenza è che chi lo è veramente, non sa di esserlo. Capita a tutti di credere per trenta secondi a una bufala, ma poi c’è chi controlla e fa una verifica delle fonti, ed è disposto a cambiare idea se si è sbagliato. L’idiota digitale, invece, indossa i paraocchi”.
Diego Cajelli, blogger, sceneggiatore di fumetti e autore per radio e tv, docente all’università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dopo anni di studio sui meccanismi della comunicazione e del web ha deciso di sporcarsi le mani andando a fondo in uno dei misteri dell’imbecillità umana. E così ha dato alle stampe - grazie alla Panini di Modena - “Il manuale illustrato dell’idiota digitale”, una rassegna alfabetica semiseria (ma molto documentata) con cui analizza le storture del web, dal complottismo alle bufale, dalla fantamedicina al cyberbullismo, affiancato da una schiera di disegnatori e vignettisti come Simone Angelini, Alberto Corradi e Massimo Giacon.
Meglio un giorno da leone da tastiera che cento da pecora parlando faccia a faccia? Ovvero, perché la comunicazione sul web è generalmente più aggressiva di quella verbale?
“Nei primi anni ’90, quando il web era diffuso soprattutto nelle università, un professore del Mit di Boston fece una ricerca e scoprì che le comunicazioni tra studente e docente via mail erano molto più aggressive di quelle faccia a faccia. Lo schermo è un amplificatore, un grandissimo megafono che vale per tutti. E come diceva Umberto Eco: un tempo, i matti del paese erano isolati e parlavano con i soliti quattro clienti al bar, invece adesso fanno massa critica e sono in grado di spostare le opinioni e, con esse, le concentrazioni economiche e politiche”
Nel libro, pare che lei non creda più nel confronto sul web. L’attività del debunker, ovvero "quel poveraccio che passa ore e ore sul web smascherando bufale e informazioni false” e che “spesso si ritrova solo a litigare con dei celenterati”, è descritta come una fra le più frustranti...
“In effetti non credo più nel confronto. O meglio, con una ristretta cerchia può funzionare, ma oltre no. La rete sociale di una persona non può essere più ampia di 150 persone, è un numero legato a un’attitudine tribale. Oltre quella dimensione, inizia la web socialità basata sui click. Quando ha creato il web, Tim Berners-Lee sognava per la sua invenzione delle ricadute sociali positive, insomma, la Rete avrebbe dovuto favorire e migliorare i rapporti sociali. Non è stato proprio così e oggi si passano ore sul web senza ottenere che grandi monologhi”.
Una delle voci del suo manuale riguarda la 'fantamedicina'. Di cosa si tratta?
“Una premessa: di fronte a una malattia o un problema medico, l’essere umano ha tutto il diritto di attaccarsi a una risposta non scientifica o non realistica. Ognuno reagisce come vuole. Il problema della fantamedicina non è mai nei pazienti, ma in quei truffatori che approfittano di questa situazione psicologica per farci soldi”.
Sui vaccini si è scatenata una polemica accesissima...
“Si parte dall’assunto sbagliato, ovvero che Big Pharma (l’insieme delle case farmaceutiche, ndr) lucri sulla moltiplicazione dei vaccini: in realtà il vero business sarebbe lasciarci ammalare, più che far sparire le malattie. Inoltre, non è che le cure alternative siano gratis, tutt’altro: generano un’economia sotterranea molto rilevante e non si basano su nessun tipo di fondamento scientifico”.
Giornalismo e web, un rapporto difficile. Come ci si muove nell’era della post-verità?
"Il giornalismo è in una situazione borderline. Siamo oltre l’era della post-verità, in un mondo fatto di realtà parallele, ognuna con le proprie convinzioni. Avendo dei direttori responsabili e un prezzo di copertina, i giornali sono visti da molti come un nemico, l’autorevolezza è stata trasformata in una caratteristica negativa, è diventata sinonimo di asservimento al sistema e ai poteri forti. Certo, per il giornalismo è un momento difficile: deve stare attento a non usare lo stesso linguaggio del web, ma deve per forza tenerne conto e seguirlo. C’è poco da fare: il fatturato annuo di Facebook supera il giro d'affari mondiale della carta stampata. E le multe ai colossi del web equivalgono solo a pochi minuti dei loro incassi”.
Cyberbullismo, se ne parla tanto, ma si fa poco per fermarlo.
“Il problema è che in campo vengono messi solo due attori, la vittima e e il bullo, una situazione applicabile solo in caso di bullismo ‘classico’, cioè l’angheria fisica, diciamo. Non si tiene conto, invece, dei meccanismi di controllo di cui possono essere dotati i social media e gli smartphone. Lo stesso algoritmo che regola, a livello di marketing, il fatto che ognuno di noi si trovi sulla propria pagina una pubblicità invece che un’altra, può individuare e punire tentativi di bullismo. Se solo le società telefoniche e i social lo volessero, la piaga sarebbe già stata stroncata”.
Insomma, come si può uscire dalla tirannia digitale e dominare lo strumento?
“Io vedo due vie: la prima è quella di riconquistarci il nostro essere non digitali, recuperando le relazioni faccia a faccia. Fuori c’è tutto un mondo, ci sono gli amici al bar, una socialità che va coltivata. L’altra via è l’educazione: bisogna far capire ai ragazzi cosa significhi avere, di fatto, due identità, biologica e digitale, allo stesso momento. Invece a scuola questi temi non vengono trattati: andare sul web è come guidare la macchina, dovrebbe essere necessaria una patente”.