Torino, 12 dicembre 2017 - Sopra l’acqua, fra le montagne, sui cieli delle città. Per Vasco Rossi, Niccolò Fabi e Matteo Garrone che si sono innamorati della sua vertigine. Per i manager stressati. Per chi ha paura. Per l’albatros che sulla terra si sente un verme. E per se stesso, alla ricerca dell’equilibrio perfetto. Andrea Loreni, torinese di 42 anni, di mestiere fa il funambolo. Cammina su un cavo teso a grandi altezze, libero come chi sa che si può solo andare avanti. Quando scende insegna che il rischio di vivere si gestisce allo stesso modo.
Domenica ha attraversato il Tevere su un filo d’acciaio lungo 135 metri a 20 metri d’altezza. Nessuno, da sotto, si è accorto che lassù come ogni volta andava in scena la morte del suo ego, con i ciarpami della memoria e del desiderio.
Qualcuno avrà pensato «era meglio se cadevi». Siamo tutti incorreggibili. «Capisco, il gusto del sangue. Fa parte dello spettacolo. Capita di andare con una corda di sicurezza ma anche no. Io sono caduto tante volte. Senza eccessi irrimediabili. Però più nella vita che dal cavo. E cadendo ho imparato che bisogna stare sul problema senza scappare. Lasciare che evolva. Tutto cambia e cambiano anche le criticità. Basta non impuntarsi».
Bello il fiume biondo da lassù. «Belli tutti i fiumi perché sono liquidi, forti simbolicamente. La vita è liquida, toglie di continuo punti di riferimento. Bisogna sapere respirare. Allenare una sensibilità sottile. Si tratta sempre di compiere il primo passo. Lasciare dietro le cose, prendersi il giusto rischio. Sul cavo tutto questo è molto esplicito».
Lei ha una laurea in Filosofia teoretica e unisce le traversate alla pratica Zen. Il suo commercialista la rimprovera? «Io guadagno tantissimo. In tempo e vita. Ho iniziato con gli spettacoli di strada: clave, torce, palline. Poi sono diventato filferrista camminando sui cavi tesi tra due alberi. La laurea in filosofia mi ha aperto la mente al dubbio e all’insoddisfazione per la realtà».
Che cosa non le piace del reale? «Sospettavo ci fosse altro, non meno reale. Parlando in termini zen oggi lo chiamo vuoto, da cui arriva tutto. Fare il funambolo te lo sbatte in faccia. Il rischio di stare su un filo – o di vivere – è talmente alto che l’unico modo per non impazzire è stare nel presente e perdersi nel gesto. Sospendersi».
Cosa passa per la sua testa durante le traversate? A cosa si aggrappa lo sguardo? «Non guardo oggetti, non vedo. E non riesco a fermare la mente. Però succede questo, non la ascolto più. I pensieri vanno e vengono e io sono fuori dalla corrente. Sul cavo gestisco il disequilibrio. L’equilibrio a volte accade e al massimo posso accoglierlo. Questa sì è una grande metafora».
Il ritorno è traumatico? «Ecco, io le vertigini le ho a terra. Mi sento perso. Sul filo basta mettere un piede dopo l’altro e fregarsene del piano B che non c’è. Ma sto cercando di portare l’insegnamento del cavo nella vita, dove se c’è da pelare una carota si pela la carota e basta. La perdita dell’Io con tutti i suoi rimpianti e le aspettative è un grosso guadagno. Cercherò di spiegarlo a Frida (la figlia di 3 anni, ndr ). Mia moglie Claudia lo ha imparato da sola, fa danze aeree con i tessuti. L’aria del rischio e del dubbio la conosciamo entrambi».
Prossima impresa? «Due. Nel 2019 una traversata sui sassi di Matera. Poi il sogno indeterminato: il ponte sospeso più lungo al mondo vicino a Kobe, in Giappone. Il vantaggio è che il cavo lì è già tirato».