Troppo facile. È giusto plaudire alla vittoria netta di Macron, alla sconfitta del populismo e alla sopravvivenza dell'Europa. È giusto sottolineare come i numeri di questo successo vadano addirittura oltre la maggior parte delle previsioni. Ma in un qualunque paese del vecchio continente, compresa la nazionalista e sciovinista Francia, era evidente che un candidato come Marine Le Pen non avrebbe potuto vincere. Perché la leader del Front National non è solo populista: è un'autentica estremista, dalle idee spesso più strampalate, improponibili, che forti. E partendo dalle estreme, in democrazie consolidate, è praticamente impossibile arrivare al traguardo del 51 per cento. Non è quindi per il suo circa 34 per cento che bisogna cantare vittoria, ma è su quel 34 (un cittadino su tre) gonfio di rabbia e di scontento che occorrerà ragionare se non si vorrà parlare di populismi tanto per riempirsi la bocca. È sui motivi delle tante astensioni, gente che non ha voluto spendersi né per l'uno né per l'altro, e che quindi non è per la Le Pen, ma non è neppure contro, che bisognerà riflettere. E questo compito, a Parigi, ora tocca a Emmanuel Macron, il banchiere senza la cassaforte di un partito, il candidato alternativo che più di establishment non si può.
Tocca a lui, come a ogni governante di questa Europa asmatica, ridare fiato al suo Paese e a una Unione che ha celebrato i suoi 60 anni piena di rughe e di acciacchi. Molto più vecchia della sue età, in un mondo che corre con le gambe sempre giovani degli Stati Uniti e quelle scattanti della Cina e dell'Oriente. Dalle elezioni francesi partono segnali importanti: la fine dei partiti tradizionali, svuotati di uomini e di idee. Situazione che in gran parte conosce anche l'Italia. La necessità di contrastare i cosiddetti populismi, non a chiacchiere da talk show o da comizio, ma proponendo, e attuando, ricette nuove e serie. Macron è la speranza. La scommessa. Non è detto che la vinca. Ma sarebbe grave per tutti se la perdesse.