Washington, 10 febbraio 2017 - Nuovo stop al 'muslin ban' voluto da Trump per impedire l'ingresso dei rifugiati e dei cittadini provenienti da sette Paesi islamici. La Corte d'Appello federale di San Francisco ha negato all'unanimità il ripristino del bando del presidente Usa, confermando la decisione di un giudice federale di Seattle e respingendo il ricorso dell'amministrazione americana. A questo punto la vicenda finirà davanti alla massima istanza giudiziaria: "Ci vediamo alla corte (Suprema, ndr), è in gioco la sicurezza della nazione", ha immediatamente twittato Trump definendo quella della corte d'Appello "una decisione politica". E si mostra ottimista: "Vinceremo il caso, penso molto facilmente", ha aggiunto il presidente Usa. E un altro tweet furioso, che minaccia: per ogni ora che passa centinaia di terroristi attraversano la frontiera legalmente.
The so-called pretend 9th Circuit #appealscourt judges are clueless. For each hour that passes, 100s of terrorists cross the border legally! https://t.co/2HPRfCHRJw
— Donald J. Trump (@RealDonaldTrFan) 10 febbraio 2017
Dopo questo nuovo schiaffo alle politiche di The Donald, la Corte suprema resta in una situazione di potenziale stallo (4 a 4) in attesa della conferma da parte del Senato di Neil Gorsuch, il nuovo giudice nominato da Trump. In caso di un voto in parità, resterebbe in vigore la decisione odierna e quindi il bando resterebbe sospeso.
In sostanza, secondo i giudici d'appello, l'amministrazione Usa non ha portato alcuna prova che qualcuno proveniente dai sette Paesi in questione ha commesso un attacco terroristico in Usa e non ha spiegato l'urgenza del provvedimento. Stando al collegio, erano in ballo da un lato l'interesse della sicurezza nazionale e la capacità del presidente di attuare le sue politiche, dall'altro il diritto a viaggiare liberamente, ad evitare la separazione delle famiglie e la discriminazione: sono prevalsi i secondi.
Secondo il Dipartimento di Giustizia, che aveva impugnato la decisione del giudice di Seattle, l'ordine esecutivo di Trump rientra a tutti gli effetti nei poteri del presidente senza violare la costituzione ed è giustificato dalla necessità di proteggere il Paese dalla minaccia terroristica. La Corte d'Appello federale di San Francisco, composta da tre giudici (due di nomina democratica, uno di nomina repubblicana) aveva avanzato più di un'obiezione sulla tesi della difesa, sollevando dubbi sui reali poteri del presidente in un ambito così delicato, che va a toccare il principio costituzionale della libertà religiosa.
Senza contare il modo in cui il decreto è stato adottato: l'assenza di preavviso, infatti, ha causato disagi a migliaia di persone e famiglie e caos negli aeroporti e nel trasporto aereo. Quelli che l'accusa, rappresentata dai legali degli stati di Washington e Minnesota, ha chiamato "danni irreparabili di un atto il cui solo intento è quello di discriminare chi è di religione musulmana". Trump aveva preso di mira prima il giudice di Seattle, James Robart (nominato da George W. Bush) definendolo uno pseudo-giudice e bollando come 'ridicola' la sua decisione. Poi aveva allargato il tiro, criticando una giustizia eccessivamente "politicizzata" di fronte a un provvedimento necessario per tutelare la sicurezza nazionale e scritto "in modo perfetto", tanto che "anche un cattivo studente lo capirebbe".
"E la legge dà al presidente ampi poteri per controllare chi entra o lascia il nostro Paese", aveva accusato. Ma i giudici non sono di questo parere e persino Gorsuch lo ha "tradito" definendo come "demoralizzanti e avvilenti" le sue critiche alla magistratura.
USA-CINA - Intanto il presidente Usa Donald Trump e quello cinese Xi Jinping hanno avuto il loro primo colloquio telefonico dall'insediamento del tycoon alla Casa Bianca. Il presidente americano ha fatto retromarcia con Pechino accettando di onorare la tradizionale linea politica americana che da decenni riconosce "una sola Cina". In passato il presidente Usa aveva 'flirtato' con la ribelle Taiwan sostenendo di non prendere ordini da Pechino e di non sentirsi vincolato alla politica di una sola Cina fin quando Pechino non farà concessioni commerciali.