Barcellona, 11 ottobre 2017 - Aveva con sé tutto e il contrario di tutto. I duri e puri rivoluzionari del Cup, l’Esquerra Republicana del vicepresidente Oriol Junqueras e i più cauti liberal/nazionalisti del suo partito, il PdeCat, su cui hanno fatto pressioni pazzesche sia gli industriali catalani che la Chiesa. Un passo in eccesso in una direzione avrebbe provocato uno sgretolamento della precaria maggioranza che lo sostiene. Ecco perché Carles Puigdemont ha scelto di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. O almeno di provarci. Con le mani legate dalla legge sul referendum – che lo obbligava a dichiarare l’indipendenza – Puigdemont ha scartato l’idea di una dichiarazione «sull’indipendenza» anziché «di indipendenza» perché, non solo Cup, ma anche Esquerra Republicana hanno detto chiaramente che non ci sarebbero stati.
Il secessionismo è una roulette russa - di SOFIA VENTURA
Le radici dell’accelerazione della crisi catalana nascono nella decisione della Corte suprema spagnola che nel 2010 ha bocciato e stralciato parti dello statuto autonomo catalano approvato nel 2006 con un referendum che avrebbe garantito alla regione maggiori poteri. Prima di allora i consensi indipendentisti erano ancora bassi, ma la decisione di Madrid li fece crescere e così ancor di più la repressione del referendum consultivo del 2014.
Questo, nelle elezioni dell’anno successivo, portò gli indipendentisti e la Cup al 47,9% e a guadagnare una precaria maggioranza (72 su 135 seggi) che tentò invano di ottenere un referendum condiviso. Al prevedibile «no» di Madrid, il salto nel buio del referendum illegale e ora della dichiarazione di indipendenza unilaterale, pur se sospesa. Con il rischio di vedersi congelare l’autonomia e travolgere dalla magistratura.
E come nel gioco dell’oca aver fatto un passo in avanti e tre indietro.