Roma, 20 agosto 2017 - Si dice: tre indizi fanno una prova. Ma sono di più le tracce che suggeriscono un legame tra Arabia Saudita, Kuwait e Qatar e terrorismo fondamentalista. Connessione che, però, viene spesso nascosta sotto il tappeto per i grandi interessi economici dell’Occidente con i principi arabi. Eppure, basta poco per capire la necessità di spezzare il meccanismo perverso per cui, con una mano, si combatte il terrorismo islamico e, con l’altra, si rischia di finanziarlo, seppur indirettamente. Dal 2014, sono stati 400 i giovani sauditi e kuwaitiani che, solo dagli Usa, si sono uniti all’Isis o ad Al Qaeda in Siria e in Iraq. È il numero più alto di residenti negli Stati Uniti arruolati nei gruppi terroristi, si legge in un rapporto dell’ Institute for Gulf Affairs (Iga), un ‘pensatoio’ con sede a Washington che si oppone al regime di Riad. E che accusa le autorità saudite di essere a conoscenza di questo flusso da anni, ma di non averne mai condiviso le informazioni. Negli ultimi trent’anni, i sauditi avrebbero speso più di 100 miliardi di dollari per diffondere il wahabismo (la costola religiosa più conservatrice del salafismo) attraverso moschee e centri culturali in tutto il mondo.
Ora, è vero che sempre più spesso la radicalizzazione avviene via internet, ma, in Arabia Saudita, il wahabismo è religione di Stato. Questo movimento costituisce le fondamenta religiose e ideologiche di molti dei grandi gruppi del terrorismo sunnita, da Al Qaeda all’Isis, passando per i talebani. Dalle carte sull’inchiesta sull’11 Settembre 2001, secretate dall’Fbi fino a un anno fa, si ipotizza il coinvolgimento dell’Arabia Saudita: ben 15 attentatori sui 18 coinvolti nell’attacco alle Torri gemelle erano sauditi, così come Osama Bin Laden. Si parla anche dell’«assistenza sostanziale» che due agenti segreti di Riad avrebbero dato ai dirottatori. La stessa Hillary Clinton, secondo i documenti svelati da Wikileaks, riconobbe come Arabia Saudita e Qatar fornissero «supporto finanziario e logistico clandestino all’Isis e ad altri gruppi radicali». Storicamente, poi, Riad ha appoggiato anche i palestinesi di Hamas, anche se, negli anni, i rapporti si sono raffreddati.
I principi sauditi continuano a essere bene accolti ovunque e, non appena queste rivelazioni vengono rese pubbliche, le diplomazie corrono ai ripari per evitare crisi internazionali. Petrodollari e appalti milionari non si rifiutano, poco importa il colore dell’amministrazione. Lo stesso Trump, fautore della linea dura contro i terroristi, in maggio ha eletto Riad partner nella lotta all’integralismo, continuando (come già aveva fatto Obama) a vendere armi ai sauditi: un maxi-contratto da 350 miliardi di dollari in 10 anni. È vero che, qualche settimana fa, l’Arabia Saudita – insieme a Egitto, Yemen, Emirati Arabi e Bahrein – ha isolato il Qatar, intimandogli di interrompere i presunti rapporti con i terroristi. Ma la nuova ‘Nato sunnita’ ha ancora molto da dimostrare, se davvero vuol porsi come barriera all’ondata di terrorismo che sta insanguinando il mondo. L’Italia, da parte sua, ha un interscambio commerciale di 6 miliardi (dato 2016) con l’Arabia Saudita. Pochi giorni fa il ministro degli Esteri, Angelino Alfano, dopo l’incontro con l’omologo di Riad, ha confermato le «buone relazioni» tra i due Paesi.
Eppure, in passato, la strategia del ‘lasciar fare’, in ossequio a interessi economici, ha favorito le infiltrazioni degli integralisti in Occidente: si calcola che nel Regno Unito e negli Usa più del 10% delle moschee sia guidato da predicatori wahabiti. E il proselitismo si sta spostando in Kosovo, Albania e Bosnia-Erzegovina, a pochi passi dall’Italia. Dall’Occidente all’Asia: è di pochi mesi fa la notizia di un finanziamento da un miliardo di dollari in Bangladesh per la realizzazione di 560 moschee. L’Islam conservatore si rafforza proprio nel Paese in cui, un anno fa, avvenne la strage dell’hotel Holey Artisan Bakery di Dacca: 20 morti, compresi nove italiani. Campanelli d’allarme da non sottovalutare.