NEI SUOI DIECI anni di vita, il Partito democratico non è riuscito a omogeneizzare i gruppi dirigenti ex comunista ed ex democristiano, ha assistito impotente alla fuga di elettori e iscritti iniziata ben prima dell’avvento di Matteo Renzi, ha cambiato la cifra record di cinque segretari e non ha mai vinto le elezioni con un proprio candidato. Difficile considerarlo un brand di successo. Tuttavia, era il partito di sinistra più in salute d’Europa. Lo fu. Ne parliamo al passato perché con la scissione annunciata di D’Alema e compagni del vecchio Pd rimarrà (forse) solo il nome, ma la sua forza elettorale è destinata a ridursi. Ne sarà valsa la pena? Se la politica fosse solo carrierismo e ambizione personale, la risposta è sì, ne sarà valsa la pena. Matteo Renzi avrà finalmente un partito tutto suo. Massimo D’Alema tornerà in parlamento e i suoi compagni d’arme avranno più seggi di quelli che avrebbero avuto se fossero rimasti nel Pd. Ma la politica intesa come programma di governo, visione della società e idea del futuro non c’entra davvero nulla.
INFATTI nessuna delle parti in conflitto esibisce argomenti in questo senso “politici” per giustificare la rottura. L’attivismo di Renzi si spiega solo con l’umano istinto di sopravvivenza (politica, s’intende). Mentre dietro l’imbarazzante etichetta di “Rivoluzione socialista” scelta dagli scissionisti si nascondono solo valutazioni personali e conteggi di posti in lista. Molti calcoli materiali, nessuna questione ideale. Ne discende una nemesi perfetta, una straordinaria sequenza di eterogenesi dei fini: materiali ghiotti per gli storici di domani e per i comici di oggi. D’Alema si ritroverà, infatti, inesorabilmente attestato su posizioni politiche opposte a quelle cavalcate da premier e in compagnia di gente come Tomaso Montanari, pedigree “Fatto quotidiano”, ovvero i suoi nemici naturali. Renzi si ritroverà a fare il segretario di partito (ruolo che gli ha sempre fatto orrore) e con ogni probabilità non tornerà mai più a calzare i panni del presidente del Consiglio (ruolo per svolgere il quale ritiene d’essere nato).È infatti chiaro che si voterà col proporzionale, che nessun partito vincerà le elezioni, che (forse) l’unica maggioranza di governo possibile sarà data dall’unione tra Pd, Forza Italia e qualche altro partitino e che Silvio Berlusconi non indicherà mai il segretario dei democratici come premier.
IN DEFINITIVA, l’unico beneficiario dell’arroganza renziana e della demenziale deriva scissionista sarà proprio lui: Silvio Berlusconi. Oggi lo esclude, ma semmai decidesse di unire in un’unica lista tutte le forze del centrodestra potrebbe forse arrivare al 40%, incassare il premio di maggioranza e mettere in piedi un suo governo. Ma se anche confermasse l’idea di presentarsi agli elettori con la sola Forza Italia si accrediterebbe come il dominus del dopo elezioni. Si sapeva che tra lui e D’Alema corre buon sangue, non si immaginava che l’ex segretario diessino fosse capace di tanto pur di renderlo felice.