Washington, 7 gennaio 2016 - PER SPIEGARE il cosiddetto fenomeno Trump bisogna partire da un paradosso. Il candidato Donald Trump non esisterebbe se non ci fosse un presidente come Barack Obama. Non è la prima volta. Già sette anni fa Obama non avrebbe vinto la nomination democratica sulla favorita Hillary Clinton e poi la presidenza contro l’opaco repubblicano John MacCain se non fosse stato preceduto da George W. Bush. Perché? Per un motivo semplice: in due consecutive campagne elettorali gli americani sono stati mossi più dall’avversione che dal consenso. In quella del 2008 contro il repubblicano Bush per l’inutile guerra in Iraq e per lo sconquasso finanziario avviato dalla bolla dei subprime, originata – a onor del vero – da Alan Greenspan, presidente della Fed. Nella campagna attuale si rivelano talmente delusi da Obama da determinare due reazioni parallele.
In campo democratico, creano un’alternativa temibile all’inevitabile, per così dire, Hillary Clinton, nella persona dello spento Bernie Sanders. E in campo repubblicano scartano una dozzina di validi aspiranti affidandosi all’incontenibile Trump. Eppure il miliardario quasi settantenne non ha nulla che faccia supporre capacità e competenza nella conduzione della cosa pubblica. Ha sofferto quattro bancarotte. È ricco ma non troppo: 4,5 miliardi di dollari e non i 9 da lui vantati. Briciole, secondo Forbes che lo colloca al 121° posto nella scala dei tycoons.
È UN PESSIMO oratore, non nel senso che non sia colorito ma nel senso che sembra votato ad alienarsi le simpatie di chi lo ascolta. Degli ispanici, per esempio, che sono 65 milioni e senza il cui voto nessuno potrà andare alla Casa Bianca. Delle donne single. Delle minoranze: dai negri o neri (lui li chiama così e non afro-americani), all’immigrazione musulmana, agli omosessuali ovviamente ai quali contrappone le sue conquiste. «Sono andato a letto con le donne più belle del mondo», ripete. Effettivamente amiche, fidanzate, mogli sono uno schianto. È stato sposato con Ivana Zelnickova, Marla Maples, Melania Knauss l’ultima. Ma guardatela – dice – che ne direste di una First Lady come questa? Anche fisicamente non è gran che. Anzi. Ha l’aria flaccida. Un volto rosso da gallinaccio. E poi quel ciuffo. Sembra un riporto. No, replica lui e autorizza i giornalisti a tirargli i capelli. Se avesse un’acconciatura meno volgare, forse potrebbe farsi passare per un politico dell’establishment.
MA DONALD Trump non vuole essere un politico tradizionale e tanto meno far parte dell’establishment. È un rappresentante dell’America bianca, rabbiosa, frustrata dalla perdita di leadership e dall’inettitudine del «peggior presidente a memoria d’uomo». Di quella che si sente minacciata dall’Isis, mortificata dalla Russia e dall’Iran, esposta all’aggressività della Corea del Nord. Di quella che si è stufata del politically correct delle élite liberal. Che vuol chiamare le cose con il loro nome. Che gli immigrati clandestini vorrebbe deportarli. Che chiuderebbe le porte ai musulmani e non capisce perché Obama non parli mai di terrorismo islamico e insista nella sua crociata contro la vendita di armi. Crociata tanto generosa quanto futile. Il diritto di portare armi è il secondo emendamento della Costituzione. E non c’è alcuna possibilità che il Congresso repubblicano si lasci commuovere dalle lacrime presidenziali e lo rimetta in discussione. Del resto così la pensano anche sette americani su dieci.
SIMBOLICO al riguardo l’endorsement della figlia di John Wayne, mito di un’America sempre meno anglosassone. Ed è proprio questo il punto che fa temere ai capi storici del partito repubblicano di riperdere la presidenza.
Il voto bianco era il 62 per cento del totale nel 2012. Sarà il 60 o di meno nel Novembre del prossimo anno. Oggi Trump ha dietro di sé un elettore repubblicano su tre. Forse è vicino al tetto, azzardano i guru. Il 1° Febbraio ci saranno i caucuses in Iowa. Una settimana dopo le primarie in New Hampshire. Il 20 le primarie in South Carolina. Questo è l’appuntamento più consistente. Se Trump uscisse vincitore, sarà difficile fermarne la corsa alla nomination. La corsa alla presidenza è un’altra cosa.