Mirandola (Modena), 31 agosto 2016 - Più dei dati, diffusi puntualmente dalle istituzioni, a parlare della ricostruzione emiliana post sisma sono i centri storici. Ancora deserti, disabitati, transennati. Di giorno, i pochi negozi aperti danno la sensazione della ripresa, ma all’imbrunire cala il silenzio e la notte racconta di palazzi e quartieri senza voci, di chiese, municipi, rocche, monumenti in rassegnata attesa dei lavori di ristrutturazione. Per i sindaci dei nove comuni della Bassa modenese, i più danneggiati dalle due scosse sismiche che nel 2012 hanno percorso quattro province e percosso 54 comuni, la ricostruzione è al 70%».
Per il Comitato Sisma 12 , che durante l’emergenza ha riunito in piazza centinaia di terremotati per manifestare contro il contributo regionale dell’80%, poi elevato al 100%, la ricostruzione è ferma al 30%. «Ai carissimi terremotati del centro Italia – commenta Sandro Romagnoli, di Sisma 12 – suggeriamo di non prendere a modello l’Emilia. La gente è ancora fuori casa anche se Regione e sindaci vogliono far credere il contrario».
Per Elisabetta Altrovandi, presidente di No Tax Area , «esportare la ricostruzione emiliana in centro Italia, in base allo slogan ‘com’ era, dov’era’, è una follia. In Emilia – sottolinea – il sisma è stato ‘economico’, tante le imprese distrutte e gli imprenditori ripartiti lo hanno fatto quasi esclusivamente ricorrendo a risarcimenti assicurativi o a risorse proprie. I centri storici, invece, sono al palo e pensare di riproporre un modello di ricostruzione fallace, proprio rispetto ai centri, in un contesto abitativo in cui il sisma ha distrutto i borghi è impensabile». A ciò si aggiungano gli sfollati emiliani. Nel Modenese sono fuori casa 11.500, 12mila in tutto il cratere emiliano. Il malcontento è tanto. Pochi però sono coloro disposti a raccontare la loro storia di terremotati, in attesa, dal 2012, di tornare a casa. «Il timore – commenta Marzia Diacci, di Novi – è di compromettere il buon esito della pratica ferma negli uffici tecnici comunali».
La famiglia Diacci è delocalizzata dal 2012. I genitori, Afro e Maria Pia, agricoltori, vivono in un capannone antisismico, costruito di tasca loro. «In un’unica stanza c’è la cucina, il letto, la cuccia per il cane. Il bagno è esterno. Aspettiamo tempi migliori, ma ci riteniamo fortunati rispetto ai terremotati del centro Italia, che hanno perso gli affetti più cari». Aureliano Mascioli, imprenditore, ha perso casa e impresa. «Sono delocalizzato a Carpi, la casa è ancora da demolire. Il problema, però, per noi piccoli imprenditori, sono altri oltre alla casa. Tanti hanno chiuso bottega. I lunghi tempi di pagamento del Sal (saldo fine lavori) non aiuta chi non ha un po’ di copertura finanziaria. ‘Saltare’ è un attimo. Io resisto, ma fino a quando?». Serena Artioli, 31 anni, commerciante, delocalizzata da quattro anni in un container vende cartucce e carta da stampante. Prima ero là – indica il complesso commerciale retrostante ancora da ricostruire – e ormai ho perso il conto della mia pratica».
Come Ermanno Bignardi, delocalizzato nel container da quattro anni, titolare, assieme al fratello Francesco del bar Nazionale. «Prima del sisma eravamo in affitto in centro storico. La pratica? Ormai ho perso il conto. I clienti sono la nostra sola forza». La forza, invece, di guardare al futuro Kamal Amini, extracomunitario disabile, la sta esaurendo. «Sono dentro a un modulo e per un invalido come me non è facile. Il Comune di Mirandola mi ha promesso una casa in muratura tra un mese. Vi farò sapere».