Roma, 25 agosto 2016 - «I Comuni dovrebbero fare molto di più, in termini di rigidità delle norme anti sismiche e diffusione della cultura del rischio. E invece siamo sempre al fatalismo, alla speranza che tocchi a qualcuno altro...». Il professor Enzo Scandurra è ordinario di Ingegneria civile, edile e ambientale alla Sapienza di Roma, esperto di sviluppo sostenibile e urbanistica. La sua analisi parte da un dato di fatto inoppugnabile: «Il terremoto non è colpa di nessuno, ignorare che ci sono aree ad alto rischio sì».
Cosa si dovrebbe fare allora?
«Intervenire a tappeto su tutti i centri storici è impensabile. Ma partiamo da alcune certezze: edifici pubblici, scuole, ospedali devono rispettare tutte le norme antisismiche. Invece in ogni terremoto contiamo crolli di queste strutture e questo è inaccettabile».
Per le abitazioni come si può diminuire il rischio di crolli?
«Nei centri storici di queste realtà spesso i privati effettuano ristrutturazioni. Ecco, è in queste occasioni che le amministrazioni dovrebbero pretendere interventi in grado di attenuare il pericolo. Se si fosse fatto sempre, i pericoli sarebbero più contenuti. Le leggi ci sono, basterebbe farle rispettare».
E invece cosa succede?
«Per carenza di personale, impreparazione, incapacità di comprendere l’importanza di tali scelte, spesso non si presta la dovuta attenzione. Nelle aree ad alto rischio sismico, le relazioni geologiche non dovrebbero essere astidiosi allegati ai progetti, ma un fattore discriminante».
È solo colpa delle amministrazioni o anche di chi realizza gli interventi?
«C’è anche un atteggiamento sbagliato dall’altra parte, certo. Certe norme sono viste come vessazioni e orpelli burocratici ma rappresentano una possibilità di salvezza. Dovrebbe essere chiaro che va superata la mentalità dell’evento occasionale e si deve ragionare in termini di problema costante».
Come in Giappone.
«Quello è l’esempio più eclatante: laddove il rischio non può essere evitato, bisogna imparare a conviverci. Quindi educazione e prevenzione sono una priorità».
Ma in Italia quando si è allentata questa forma di rispetto e controllo del territorio?
«Negli anni del boom economico del dopoguerra certi pericoli, che pure esistono da sempre, sono stati di fatto rimossi dalla nostra cultura. Si è guardato molto allo sviluppo e poco alle regole. Basti pensare all’area sotto al Vesuvio, una bomba a orologeria. Possibile che nessuno si sia mai chiesto cosa potrebbe succedere su quel terreno tanto delicato, in caso di eruzione o terremoto? Tutto è affidato al destino, alla speranza di cavarsela in qualche modo...».
Come prevenire allora, nelle aree a rischio?
«Le prime cose semplici: piazzole per eliporti, facilità di accesso, aree di emergenza inedificabili adiacenti ai centri urbani. E poi una costante opera di educazione nelle scuole. Il problema non va nascosto, ma affrontato: chi abita in quelle zone deve sapere cosa fare e come muoversi in caso di sisma».
E sul fronte costruzioni?
«Rispetto rigoroso dei coefficienti di sicurezza sia per le ristrutturazioni sia per i nuovi interventi».
Come si dovrebbe edificare?
«Un modo di pensare diffuso è che per contrastare il terremoto serva il cemento armato. Ma a parte verificarne la qualità, talvolta scadente, non è una verità assoluta. Sopra la faglia di Sant’Andrea, negli Stati Uniti, dove il pericolo è elevatissimo, la grande maggioranza delle case è di legno, che ha un’elevata flessibilità. Al di là dei luoghi comuni, serve un’impostazione culturale che faccia della prevenzione il perno delle scelte edilizie e urbanistiche. Altrimenti continueremo ad affidarci al caso. E contare i morti».