Roma, 17 giugno 2017 - Nella notte infernale al Bataclan, il 13 novembre 2015, i morti furono di 26 nazionalità diverse. In qualsiasi pub di Londra o bistrot di Parigi o birreria di Praga un esperanto che mescola inglese e sorrisi unisce ragazzi raminghi e felici. Perché non è vero che dentro ogni ex bambino si nasconde un bamboccione legato al divano di mamma. Non è vero nemmeno in Italia, dove la crisi avrebbe trasformato in condanna un vecchio cliché. La generazione Erasmus, questo bellissimo brand scapigliato, ha voglia di andare e vive sul serio senza frontiere. Si laurea, parte, lavora, ritorna. Cambia case, amici, orizzonti. Va dove la porta l’occasione senza domandarsi se sarà per sempre.
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Il programma studentesco nato ormai 30 anni fa ha stimolato impollinazioni e aperto nuove strade ai pionieri del vecchio continente. E avrebbe generato un’Europa viva e straordinaria se contemporaneamente tutta l’Europa, come il resto del mondo, non fosse diventato un posto pericoloso. Quindi si parte. E a volte non si torna. E non c’è un nesso logico, non c’è prevedibilità. Non c’è nemmeno la certezza che a restare si rimanga al sicuro. È collisione di due universi: la marea della meglio gioventù e i capricci del destino travestito da grattacielo che brucia o da kamikaze della generazione Jihad, coetanea e opposta. Ma un filo rosso lega le morti dei nostri ragazzi con la valigia.
Gloria Trevisan, Marco Gottardi, Valeria Solesin, Fabrizia Di Lorenzo. Se avessero potuto probabilmente sarebbero rimasti qui, a raccogliere abbondanti fienagioni dalle lauree prestigiose. Non hanno potuto. Di fronte a precariati da 300 euro al mese hanno scelto la seconda e a tutti, guarda caso, è andata bene. Si sono portati dietro la nostalgia, l’ipotesi di un ritorno. Ma senza rinfacciare l’invito alla paralisi di un Paese immobile. Per questo la loro morte oltre che al cuore fa male alla ragione: è così difficile metterli in condizione di partire – o anche di restare, ma con dignità – senza pensare a loro solo quando ritornano in una bara?
Maria Cristina Sandrin, l’avvocato della famiglia Trevisan – la stessa che ieri ha dato l’annuncio ufficiale, i fidanzati sono morti –, ha avuto il coraggio di dirlo: «Gloria si è laureata il 18 ottobre ma qui le soluzioni lavorative non davano gli esiti professionali che ogni giovane meriterebbe, anche quando esce con 110. C’è qualcosa che non va». Trecento euro al mese contro 1800 sterline in Inghilterra. E poi è andata come è andata, la Grenfell Tower è diventata un tizzone nero sullo skyline londinese. Il destino appunto.
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Però nel giro di due mesi sia Gloria sia Marco un lavoro lo hanno trovato senza ripiegare dietro al bancone di un bar. E non è vero che sono morti perché hanno avuto il coraggio di sognare, è vero piuttosto che in Italia sognare era diventato impossibile. Come lo fu per Valeria Solesin cresciuta nel cuore di Venezia e diventata cittadina del mondo per passione e necessità. Laurea in Sociologia, dottorato a Parigi, specializzazione alla Sorbona. Una figlia della casa Europa che trova posto per tutti, spazzata via dalla furia dell’attentato al Bataclan. «Speriamo che la sua morte serva a valorizzare i tanti giovani che studiano e lavorano qui da noi e all’estero», disse la mamma Luciana Milani. Un pensiero straordinario regalato nella tempesta della disperazione, la fotografia di un’indifferenza reale al problema di chi si conquista con le unghie ogni millimetro di vita. Per Fabrizia Di Lorenzo, vittima nella strage di Natale al mercatino di Berlino, si è usata l’espressione cervello in fuga. Ma nemmeno lei stava davvero scappando. Semplicemente lavorava in Germania con la stessa dedizione che avrebbe messo se l’avessero assunta dalle parti di Sulmona. Aveva postato il video della ‘Meglio gioventù’ dove il professore durante un esame di medicina invita Luigi Lo Cascio a lasciare l’Italia, «un Paese di dinosauri in cui non cambia mai nulla». E forse sperava che fosse solo un film.