Roma, 25 ottobre 2017 - L’8 settembre 1943 come «la morte della Patria». È il pensiero di intellettuali che individuarono nell’Armistizio un tradimento morale. Per molti, rimasti coerenti con un ideale sconfitto, quel giorno andò in frantumi l’idea di nazione. Ferita mai più rimarginata. Sul desiderio rivelato dal direttore di “Qn” direttore di Qn del padre, Franco Cangini, di indossare la camicia nera nella bara, ospitiamo una serie di contributi. Agli articoli di Franco Cardini, Luciano Violante, Marcello Veneziani e Pierluigi Battista, Augusto Barbera, Marco Follini, Francesco Perfetti e Walter Veltroni, seguiranno quelli di Ernesto Galli della Loggia e Claudio Martelli.
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di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA
Caro direttore, come ora ci è sempre più chiaro il fascismo fu molte cose insieme, e contraddittorie. Sicuramente antiliberale, antidemocratico e antisocialista nel suo esito di regime, tuttavia nacque anche da esigenze, sentimenti, caratteri culturali non indegni in cui molti italiani si riconobbero sia prima che dopo la marcia su Roma. Era dunque inevitabile che da un lato nella memoria di questi (oltre che naturalmente dei suoi seguaci veri e propri), e dall’altro in quella dei suoi avversari esso sopravvivesse in modi assai diversi. I primi non furono convinti della sua negatività assoluta neppure dalla fine che esso fece – così rovinosa e all’insegna della complicità nello sterminio antisemita –; ai secondi restò l’amaro in bocca, dopo il 1945, di non essere stati capaci nonostante tutto, di sconfiggerlo da soli.
Forse fu proprio ciò, mi viene qualche volta da pensare, che invece di spinger gli antifascisti a comprendere le ragioni non spregevoli del successo del loro avversario, e a comprendere che la verità di almeno alcune di tali ragioni non si esaurivano col e nel fascismo stesso, li spinse invece, per un paradosso psicologicamente assai spiegabile (ma politicamente imperdonabile), a vedere in esso solo una negatività assoluta e irrimediabile. E quindi con l’acqua sporca a buttare tutti i bambini che ci sguazzavano dentro.
La memoria del fascismo è stata divisa innanzi tutto perché duplice e divisa è stata la sua natura. E perché i motivi non spregevoli che avevano tanto contribuito al suo successo iniziale e ancora di più al suo consenso come regime non esaurirono certo il 25 luglio o il 25 aprile la loro buona ragion d’essere. Nel lungo dopoguerra italiano, chi a quei motivi si sentiva comunque legato, chi in essi riponeva una parte importante della propria identità, in un certo modo si sentì anche legato e identificato con il fascismo. Pronto a impugnare il manganello, a negare la libertà di parola, a partire per qualche nuova Abissinia? No, non credo. Ma a nessun costo disposto a unirsi al coro deprecatorio verso il “cessato regime” ( peraltro troppo spesso intonato, ahimè, dai suoi cantori di un tempo).
Da quello che tu hai rivelato circa la morte di tuo padre, Franco Cangini dovette appartenere a questa schiera di nostri concittadini. Ci apparteneva forse anche mio padre, cui un infarto repentino impedì però di accorgersi che stava morendo e di dirci quindi quali fossero le sue ultime volontà. Mio padre che imperante la Dc votò sempre liberale, che era un ufficiale medico del Regio Esercito appena reduce da due anni nei Balcani quando l’8 settembre del ‘43 , narrano le cronache familiari, all’annunzio dell’armistizio si rivolse a suo figlio in fasce esclamando – con una retorica che a noi oggi sembra prima che ridicola inconcepibile – «voglia Iddio che un giorno non ti debba vergognare di essere italiano!».
Lo ha già detto, credo, qualcun altro di quelli che sono intervenuti: la richiesta di Franco Cangini, di essere seppellito in camicia nera non può che essere interpretata come una protesta sdegnosa verso l’Italia postfascista. Come altro, se no? Una protesta verso quell’Italia che a lungo ha creduto che essere antifascisti non significasse avere fini e modi opposti a quelli del fascismo, quanto piuttosto non fare alcun conto di tutto ciò che nel fascismo contava. Che poi era spesso quanto al fascismo era arrivato dalla vecchia Italia risorgimentale, liberal-borghese e mazziniana, che aveva chiuso la sua storia sulle sponde del Piave. Si trattava innanzi tutto dei valori di una certa qual dignità e moralità personale ispirate a un antico galantomismo, e poi del valore della nazione intesa come un retaggio di cultura e di memorie da custodire, come uno Stato da obbedire, infine come una Patria da amare (che parola assurda, roba da libro Cuore o da Salgari: ma le cose stavano così, non c’è niente da fare).
Per mille ragioni complicate che peraltro ci sono sempre più chiare (gli storici servono pure a qualcosa) dall’Italia democratica, caro Direttore, questa Patria e tutto ciò che essa significava e racchiudeva fu lasciato spegnersi: o se l’espressione sembra esagerata, diciamo che non è stato nutrito con la passione e l’impegno che erano necessari. La democrazia italiana è nata ed è stata per molto tempo una democrazia senza nazione. Il fatto che solo in questi giorni si stia procedendo a stabilire ufficialmente che abbiamo un inno nazionale, e che questo inno è quello di Mameli, è null’altro che un minuscolo indizio tra un mare di prove schiaccianti.
E così per anni ed anni a quella schiera di italiani di cui si diceva prima, a cui apparteneva Franco Cangini, non rimase altro che la nostalgia. Lo struggimento. Quasi sempre silenzioso, talora percorso, possiamo immaginare, da qualche moto di rabbia rattenuta. A colmare la misura ci si misero poi i tempi e i costumi nuovi. La modernità, il terrorismo, la partitocrazia, Porci con le ali. Tutto quello che poteva cambiare cambiò. In un angolo della memoria, trasfigurata a simbolo della sognata dignità di una sconfitta, restava tuttavia la camicia nera: da indossare sulla soglia delle tenebre come segno della volontà di essere fino in fondo se stessi, di non piegare il capo di fronte al mondo così com’è.
(11. continua)