Roma, 25 ottobre 2017 - L’8 settembre 1943 come «la morte della Patria». È il pensiero di intellettuali che individuarono nell’Armistizio un tradimento morale. Per molti, rimasti coerenti con un ideale sconfitto, quel giorno andò in frantumi l’idea di nazione. Ferita mai più rimarginata. Sul desiderio rivelato dal direttore di “Qn” direttore di Qn del padre, Franco Cangini, di indossare la camicia nera nella bara, ospitiamo una serie di contributi. Agli articoli di Franco Cardini, Luciano Violante, Marcello Veneziani e Pierluigi Battista, Augusto Barbera, Marco Follini, Francesco Perfetti e Walter Veltroni, seguiranno quelli di Ernesto Galli della Loggia e Claudio Martelli.
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di WALTER VELTRONI
Caro Direttore, caro Andrea, ci sono molti modi di corrispondere al gentile invito a partecipare alla bella e sincera discussione che si è aperta sulle colonne del tuo giornale. Il tutto muove dalla tua coraggiosa decisione di raccontare le riflessioni e gli interrogativi che le ultime volontà di tuo padre hanno suscitato in te. Da qui voglio partire: la tua scelta, parlare della camicia nera che Franco Cangini ha chiesto di indossare per il suo ultimo viaggio, è per me un atto d’amore, di rispetto, che ammiro. Immagino che quella disposizione ti abbia sorpreso, forse imbarazzato, ma tu hai giustamente voluto trasformare la volontà di tuo padre in una ragione di riflessione comune. Ho conosciuto tuo padre e, nella mia mente, ho trattenuto il ricordo di un uomo rigoroso, onesto, sincero difensore dei propri convincimenti. Un uomo elegante e moderato. Quando mi hai raccontato la sua decisione ti confesso di essere rimasto sorpreso. Per me Franco Cangini era, che so, un esponente di quel pensiero da “destra democristiana”, che ho avversato ma rispettato. La camicia nera non me l’aspettavo.
Ma mi ha fatto riflettere e confermato qualcosa di cui ho spesso parlato, anche nei miei romanzi. Qualcosa che mi interroga, mi inquieta, mi spinge a cercare ancora. Anche per contrastare la grande rimozione che, forse per sanare le ferite sanguinose di una guerra civile, la democrazia italiana ha compiuto della natura del regime che si è insediato all’inizio degli anni venti ed è durato fino all’inizio dei quaranta. Lo dico così: il fascismo non è stato un semplice incidente della storia, un regime autoritario che governava contro il popolo. Il fascismo ha goduto di un ampio, diffuso, radicato consenso nel paese. Rimuoverlo e cancellare l’analisi veritiera e onesta della sua natura ha reso fragili le basi della nostra democrazia. Sono reduce da un convegno, a Bagnacavallo sua città natale, sulla figura complessa di Leo Longanesi. La sua vicenda culturale ci può aiutare nel discorso che vorrei intraprendere. Attorno alla rivista che lui fondò, Omnibus, prototipo anticipatore dei moderni rotocalchi, ruotavano prestigiose firme di intellettuali e giornalisti: Benedetti, Pannunzio, Flaiano, Stille, Gorresio. E persino Alicata, Pintor, Muscetta. Gli uni saranno le colonne dell’informazione democratica nell’Italia liberata. Gli altri, persino, dirigenti del PCI e dell’antifascismo. Ma quella rivista, come dimostra il bel volume del professor Granata ad essa dedicato, era, per la politica interna ed estera, la pura riproduzione dei diktat del famigerato ministero della cultura popolare. Era un giornale fascista, sul quale scrivevano persone che il fascismo poi lo avrebbero combattuto, anche con le armi in pugno.
A un'altra iniziativa editoriale di Longanesi, “L’Italiano” presero parte Moravia, Morante, Buzzati, Brancati, Soldati. Quella rivista, colta ed elegante, era però “Foglio mensile della rivoluzione fascista”. Cito anche i collaboratori della rivista “Cinema” diretta da Vittorio Mussolini. C’era, in quella redazione, il meglio della intellettualità che poi avrebbe scritto la meravigliosa pagina del neorealismo. Ma siamo già dopo il 1938, dopo le odiose leggi razziali. Per molti italiani lo spartiacque definitivo fu la guerra, l’alleanza suicida e subalterna alla criminalità hitleriana. Fu in quegli anni che maturò e si diffuse il dissenso. Quel grande fenomeno civile che portò a fare della Resistenza un moto di popolo. Ma fino alla conclusione degli anni Trenta, Mussolini godette di un vastissimo consenso popolare. D’altra parte generazioni intere erano cresciute con il fascismo, non avevano esperienza di altro. Non sapevano come era fatta la libertà. Fascismo e patria si sono identificate, per chi viveva in quegli anni. E il fascismo era stato, insieme, reazione e rivoluzione. Regime e movimento. Aveva rassicurato chi era spaventato dal biennio rosso, chi era deluso dalla ingovernabilità palesata dal giovane stato liberale. Aveva strappato libertà, chiudendo giornali e partiti e riducendo il parlamento ad “un bivacco per manipoli”. In cambio garantiva ordine ed efficienza. Anche se la storia si è incaricata di rivelare il livello di corruzione anche di quel regime.
Agli italiani apparve un modello convincente ed essi vi aderirono totalmente. Se si pensa che nel 1931, ben dopo il delitto Matteotti, furono solo 15 i professori universitari che rifiutarono di aderire all’obbligo del giuramento di fedeltà al fascismo, si ha la misura del conformismo, figlio di paura ma anche di consenso, che dominava quel tempo. Gli italiani applaudirono l’entrata del nostro paese in una guerra, che avrebbe significato sangue, vittime, morte, bombardamenti, fame. Claudio Pavone ha aiutato tutti noi a dotarci di una interpretazione meno ideologica e meno rassicurante del regime fascista. E Renzo de Felice, avversato per questo, ha spostato più avanti i termini della comprensione del fenomeno.
Rimuovere il fascismo dall’analisi della storia italiana significa non solo compiere un errore di ricostruzione della biografia di una nazione ma, persino, rendere più difficile la lotta contro ogni nostalgia anacronistica e inconsapevole. Nei giorni terribili del 1943 nelle famiglie italiane si dovette decidere da che parte stare. Alcuni si nascosero, si strapparono frettolosamente il distintivo del fascio per sostituirlo con altri. Molti invece scelsero di combattere a viso aperto contro gli occupanti nazisti, rischiando la vita. Migliaia continuarono il fascismo, in quell’autunno dei valori che Pasolini ha così ben descritto nel più bello dei suoi film: “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. Ma la grande maggioranza degli italiani decise di non stare da nessun parte. Aveva paura e cercava di ricostruire una propria autobiografia per poter transitare nel nuovo tempo. Ci furono allora anche odiosi trasformismi e infingarde viltà.
Forse è proprio dal fastidio etico per questi comportamenti, per l’istintivo e mai scomparso riflesso nazionale a stare con il vincitore, che nasce la volontà ultima di tuo padre. Bisogna capire il fascismo, Perché non torni. Io, che mi sforzo di comprendere le ragioni di quel consenso e non ne nego dimensione e profondità, non ho mai accettato le furbe equidistanze, i discorsi generici, le maldestre strizzate d’occhio per ragioni elettorali. Non ci furono due parti giuste, allora. La parte giusta è sempre e soltanto una, quella della libertà. E questo vale per tutti i regimi, di qualsiasi colore. Ricordo un episodio narrato da Norberto Bobbio a proposito dell’incontro tra il senatore Pisanò, del Movimento sociale e Vittorio Foa, che era stato condannato a 15 anni di carcere dal Tribunale speciale del fascismo: «Un giorno Giorgio Pisanò, incontrando Vittorio Foa, gli disse: ‘Ci siamo combattuti da fronti contrapposti, ognuno con onore, possiamo darci la mano’. Foa gli rispose: ‘È vero abbiamo vinto noi e tu sei potuto diventare senatore, avessi vinto tu io sarei ancora in carcere’». È solo partendo da qui, da questa incancellabile distinzione tra regime e libertà, che noi oggi possiamo parlare di uguale rispetto per quelle morti, per tutti i caduti in quel conflitto. E ricostruire la storia italiana per intero. Senza buchi , sempre pericolosi.
(9. continua)