Roma, 24 ottobre 2017 - L’8 settembre 1943 come «la morte della Patria». È il pensiero di intellettuali che individuarono nell’Armistizio un tradimento morale. Per molti, rimasti coerenti con un ideale sconfitto, quel giorno andò in frantumi l’idea di nazione. Ferita mai più rimarginata. Sul desiderio rivelato dal direttore di “Qn” direttore di Qn del padre, Franco Cangini, di indossare la camicia nera nella bara, ospitiamo una serie di contributi. Agli articoli di Franco Cardini, Luciano Violante, Marcello Veneziani e Pierluigi Battista, Augusto Barbera, Marco Follini, seguiranno quelli di Walter Veltroni, Ernesto Galli della Loggia e Claudio Martelli.
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di FRANCESCO PERFETTI
La data dell’8 settembre 1943 apparve agli occhi di un grande storico, Renzo De Felice, come il simbolo di una catastrofe nazionale destinata a riflettersi sul futuro del paese. Quel giorno divenne, emblematicamente, una cartina di tornasole rivelatrice della debolezza etico-politica del popolo italiano: si consumò la «morte della patria» ed ebbe inizio un processo di «svuotamento del senso nazionale». La maggioranza del paese – individui appartenenti a tutti i ceti sociali, dalla borghesia agli operai – non optò, se non in minima parte, per precise scelte politiche o di impegno civile, ma cercò, per quanto possibile, di non rimanere coinvolta e di non prendere una posizione attestandosi in una «zona grigia», preoccupata solo di sopravvivere alla meglio alla tempesta. È una verità amara, indiscutibile. Si potrebbe – ma sarebbe esercizio ozioso – disquisire se l’8 settembre abbia significato, davvero, «morte della patria» oppure «morte della nazione» ovvero «morte dell’idea di Stato nazionale». Il dato di fatto è quello che tutti conoscono. Prima ancora degli studiosi o degli storici, a sottolineare l’entità dello sbandamento morale e del disastro materiale, ci furono il cinema – si pensi a “Tutti a casa” di Luigi Comencini – e la letteratura. Le pagine, per esempio, ciniche e sofferte, dedicate da Curzio Malaparte all’8 settembre, sono inquietanti con la descrizione di ufficiali e soldati, che, alla notizia dell’armistizio, facevano a gara «a chi buttava più “eroicamente” le armi e le bandiere nel fango». Una descrizione conclusa con una amara riflessione: «è certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra sono tutti buoni, non tutti sono capaci di perderla». È difficile immaginare che cosa abbia potuto rappresentare per un ragazzo intellettualmente dotato e sensibile come Franco Cangini, all’epoca neppure decenne, l’entità di quel disastro morale, prima ancora che militare e politico: la guerra civile che contrappose italiani a italiani, in nome di ideologie avverse ma anche, e più spesso, di vendette private o di odii ancestrali, se non addirittura di bassi interessi. Quel che è certo, mi pare, è il fatto che il senso drammatico e tragico dell’8 settembre e delle sue conseguenze a livello etico-politico ha sedimentato profondamente nell’animo di Franco Cangini.
È da qui che bisogna partire per comprenderne l’ultimo desiderio, quello di essere sepolto indossando la camicia nera. Un desiderio che non esprime tanto la nostalgia per un passato che, in realtà, non gli apparteneva appieno – non era mai stato, per ragioni anagrafiche, un fascista nel senso proprio del termine – quanto piuttosto l’intenzione di smascherare l’ipocrisia della dicotomia fascismo-antifascismo alle origini dell’Italia repubblicana e, al tempo stesso, di testimoniare, con un gesto eclatante, il suo anticonformismo.
Alla dicotomia fascismo-antifascismo la guerra fredda aveva aggiunto quella comunismo-anticomunismo. E ciò aveva ostacolato la costruzione di una compiuta democrazia basata sul confronto fra destra e sinistra, sull’alternanza fra moderati e progressisti, sul ricambio delle classi dirigenti. La democrazia italiana, quella delle cui vicende Franco Cangini fu un inarrivabile cronista e analista, era nata, insomma, bloccata. La lacerazione del tessuto morale del paese non era stata rimarginata e le sue vicende, tanto nella prima repubblica quanto nella seconda, ne sono state condizionate. Franco nel raccontare la politica, i segreti e gli intrighi della politica, utilizzava un approccio distaccato e asettico che gli derivava, probabilmente, dai suoi due autori preferiti, Francesco Guicciardini e Niccolò Machiavelli, la cui continua rilettura lo spingeva a ricercare la «realtà effettuale» al di là o al di sopra delle pulsioni ideologiche. La sua lucidità di analista era condita da una ironia che, soprattutto nelle conversazioni private, assumeva connotati paradossali e cinici. In realtà, però, quello che poteva sembrare paradosso o cinismo era un modo con il quale egli, con una sorta di pudore interiore, celava – proprio perché sentimento intimo – il suo amore profondo per un paese che aveva perduto il senso dello Stato e che non sembrava capace di metabolizzare il trauma divisivo dell’8 settembre e della «morte della patria». Nel suo ultimo desiderio – la camicia nera – non c’è il gusto della provocazione politica. C’è, semmai, una manifestazione della sua ironia. E, perché no?, un messaggio di speranza per un futuro nel quale sia possibile il recupero del senso della patria, della nazione e, quindi, dello Stato. Almeno così sembra a me che di Franco – penso di poterlo affermare con un pizzico di orgoglio – sono stato uno degli più amici più stretti e affezionati.
(8. continua)