Bologna, 17 ottobre 2017 - L’8 settembre 1943 visto come «la morte della Patria». È il pensiero di diversi intellettuali, che individuarono nell’Armistizio un tradimento morale. Per molti, rimasti coerenti con un ideale sconfitto, quel giorno andò in frantumi l’idea di nazione e si arenò la costruzione dello Stato. La ferita non si è più rimarginata. Sul tema affrontato oggi dal direttore di “Qn”, da domani ospiteremo una serie di contributi prestigiosi. Firmati, tra gli altri, da Luciano Violante, Franco Cardini, Pierluigi Battista, Walter Veltroni, Augusto Barbera, Marcello Veneziani, Marco Follini, Francesco Perfetti.
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di ANDREA CANGINI
Prima di morire, la scorsa settimana, mio padre (Franco Cangini nella foto sotto ndr) ha lasciato un’unica disposizione: essere vestito in camicia nera. Era così che voleva presentarsi al suo funerale e così è stato. Mi sono chiesto che senso avesse. Il suggello di un’esistenza, è stata la risposta.
Si sbriciolò, allora, l’idea stessa dello Stato. Si abbandonò ogni coerenza, si sdoganò ogni furbizia. Gli alleati diventavano nemici, i nemici diventavano alleati, i fascisti diventarono antifascisti. La nazione ne uscì disorientata e iniziò allora una furibonda e mai cessata guerra contro sé stessa. Una guerra civile. Il Fascismo, per vent’anni simulacro e camicia di forza di una parvente identità nazionale, si ritrovò improvvisamente senza padri né figli. Padre e figlio di nessuno.
Fu così, per reazione, che un bambino di dieci anni si caricò in spalla l’onore della nazione. Come a lavare un’onta, come a testimoniare con la propria vita che la coerenza è possibile, che è possibile per la coerenza farsi largo persino in Italia. L’Italia: mio padre aveva, o fingeva di avere, fede in una cosa che sapeva benissimo che non esisteva né mai potrà esistere davvero. L’Italia vive nelle parole dei poeti e si polverizza nella prosa degli italiani. Però c’è stato anche chi per recitare questa poesia è morto, e quelle «belle morti» hanno alimentato il sogno.
Non voleva essere risvegliato, mio padre. Si adattava al mondo, ma in cuor suo si sentiva come la sentinella romana trovata sull’attenti pietrificata dalla lava dopo l’eruzione del Vesuvio. Sull’attenti, perché fedele alla consegna senza che alcun contrordine fosse giunto. “Fascista”, forse, perché una guerra si finisce con chi la si è cominciata.
Per nulla settario, stimava le persone in base all’intelligenza e al coraggio e con lo stesso metro è stato a sua volta stimato. In molti lo hanno ricordato come “un galantuomo”, e semmai fosse possibile rinchiudere una persona in un solo aggettivo, quello sarebbe per lui il più calzante. Non solo nel senso della buona educazione e dello stile personale, ma soprattutto per via di certi principi antichi, del senso del dovere, della coerenza ideale. Il fatto di aver aderito a un mondo inesistente o dissolto gli ha consentito quel distacco critico che ha fatto di lui un uomo giusto e un buon giornalista. Qualità che con piacere ho visto celebrate nel giorno della sua morte a destra, al centro e a sinistra.
Tuttavia, apparteneva a quella moltitudine spesso silenziosa di italiani che non riusciva a rimuovere il trauma del ’43. Satta li ha tratteggiati così: «Sentivano oscuramente che tra loro e gli altri uomini, gli uomini che non avevano vissuto la loro esperienza, si innalzava un muro che essi non sarebbero mai riusciti a penetrare».
Per esperienza diretta o echi familiari, dietro a quel muro si sono trovati in molti e in molti l’hanno valicato sparpagliandosi qua e là. Persino nel Pci. E il punto allora è: erano reduci o testimoni? Tanti intellettuali, politici e comuni cittadini hanno avvertito e ancora oggi avvertono il disagio di quella frattura nazionale. Una frattura scomposta. È gente che si è rifugiata in un passato idealizzato o sono sentinelle che suonano la tromba per richiamarci al giudizio, rimosso, su quello che siamo?
Comincia da oggi, attorno a quest’interrogativo, una serie di interventi probabilmente interessanti.